Causa maltempo, la Rivoluzione è rinviata a data da destinarsi. Nell’immortale, grottesco, ferocissimo aforisma di quel genio di Flaiano risiede tutta la dimensione politica, il livello culturale, il profilo antropologico, addirittura lombrosiano di Luigi Di Maio.
La punta di diamante del partito degli scappati di casa - protagonista di quella celebre notte ad alto tasso alcolico in cui fu annunciata l’abolizione della povertà, una delle scene più circensi a cui abbiamo avuto la fortuna di assistere negli ultimi trent’anni della sgangheratissima politica italiana - è oggettivamente personaggio assai spassoso.
Soprattutto ora, visto che dopo le sventole, i ceffoni e i manrovesci rifilatigli dalla commissione europea sta riscrivendo da zero la manovra economica, più con il piglio di Rumor che con quello di Che Guevara, a dir la verità. Ma in fondo, per quanto possa apparire incredibile, non è poi così diverso da tanti altri che lo hanno preceduto. Proviamo ad elevarci solo per un attimo dalla fanghiglia delle trattative sulla legge di bilancio. È vero che in questi giorni stanno toccando livelli da pièce situazionista, ma il punto non è questo, quanto invece il fatto che il termine rivoluzione, come ben intuito da Flaiano, acutissimo conoscitore e fustigatore della natura infida e fanghigliosa degli italiani, sia totalmente sconosciuto e, ancora di più, assolutamente inapplicabile nel nostro paese. E quindi, chiunque lo utilizzi nel dibattito politico, storiografico e, giusto per scendere di livello, giornalistico o è un falsario o è un illuso o è un pistola.
In Italia non esiste la parola rivoluzione. Non ha senso. Non fa parte della nostra storia, della nostra morale, del nostro costume, della nostra visione del mondo. La rivoluzione è roba da paesi seri, da francesi, da inglesi, da americani, da gente che ha tagliato la testa ai re, che ha pensato, incubato e realizzato la rivoluzione borghese, la riforma protestante, la rivoluzione industriale, la rivoluzione digitale. Mondi, in particolare quello anglosassone, feroci, competitivi, spietati, nei quali alla fine uno vince e prende tutto e l’altro perde ed esce di scena. Terribile, di certo anche ingiusto, ma chiarissimo. Qui, invece, nel regno di Pulcinella, non è che si vince o si perde. Qui ci si mette d’accordo. Ed è un filo rosso tenace, inscalfibile e sottilissimo che percorre i secoli dei secoli, da Machiavelli&Guicciardini fino a Di Maio&Salvini. È la natura. La nostra natura. La nostra natura di italiani. Gli italiani. I soliti italiani. I soliti simpatici, incorreggibili, inaffidabili italiani furbi e doppiogiochisti, che ogni tanto straparlano all’osteria della Bastiglia, ma per i quali è subito e immediatamente Termidoro. Noi non siamo paese di rivoluzioni, ma di rivolte. Di quelle - da Masaniello a quell’altro attaccato su per i piedi - sì che siamo massimi esperti al mondo, tipica roba da paese sottosviluppato, da paese sudamericano, da paese che in duemila anni si è fatto invadere da tutti, da tutti ha preso ordini e con tutti ha trovato il modo di arrivare al ventisette del mese.
È per questo semplicissimo motivo che i più accorti non se la sono mai bevuta la fola della rivoluzione del governo gialloverde. Ma insomma, ma come si fa? È dalla scorsa primavera che ci stanno tormentando mane e sera, ce lo stanno ripetendo e insufflando e salmodiando, dai, ce le stanno piallando, ce le stanno facendo a dadini sul terremoto italiano e sul riscatto del popolo che presto metterà a soqquadro l’Europa tutta e probabilmente anche l’universo mondo. E basta e me ne frego e qui comandiamo noi e quello là è un ubriacone e quell’altro è una cariatide e Draghi è un pirla e l’Europa non conta una cippa e la casta ora trema e lo spread ce lo mangiamo a colazione e chissenefrega dei numerini e qui si sfonda il deficit e duepuntoquattro o morte e quota cento per tutti e reddito di cittadinanza per tutti e flat tax per tutti e dagli al negro per tutti e il popolo è con noi e la gente è con noi e i meglio fighi del bigoncio sono con noi e tutti lì a pontificare, a concionare, a millantare, a catoneggiare, a trombonare sulle magnifiche sorti e progressive del governo più rivoluzionario che c’è e bla bla bla…
Poi, ma guarda un po’ - tra qualche milione di social card fantasma con relativa esibizione da Circo Medrano del sottosegretario Castelli e qualche lavoretto in nero a casa e in pizzeria che però lui era tanto giudizioso -, quando alla fine si è presentata quella che quello là chiamava “la realtà effettuale”, con gli intollerabili danni all’economia del nord, alle infrastrutture e agli investimenti delle aziende, è venuto giù tutto. Con tanto di ingloriosa, a tratti fantozziana, rimangiatura, insabbiatura e riscrittura nelle segrete stanze di quanto si era sbandierato ai quattro venti a ogni comizio, in ogni intervista e a ogni comparsata televisiva. Statisti.
D’altronde sono lustri che i più saggi si fanno delle crasse risate sulle fantasmagoriche rivoluzioni all’italiana, naturalmente strombazzate dai nostri formidabili giornaloni, che in quanto a senso critico, autonomia di giudizio e schiena diritta nei confronti dei padroni del vapore non prendono lezioni da nessuno. Che bei ricordi. La rivoluzione qualunquista di Giannini (e giù risate), la rivoluzione comunista delle Brigate Rosse (e giù mitragliate), la rivoluzione socialista di Craxi (e giù risate), la rivoluzione giustizialista di Di Pietro&Davigo (e giù risate&suicidate), la rivoluzione federalista di Bossi (e giù risate), la rivoluzione liberista di Berlusconi (e giù risate), la rivoluzione ulivista di Prodi (e giù risate), la rivoluzione rottamista di Renzi (e giù risate) e, infine, ciliegina sulla torta, la rivoluzione popolarista, antieuropeista e anticastista dei 5Stelle (e giù risate!!).
Sono trent’anni che ridiamo a crepapelle, qui nel paese dell’avanspettacolo. Ora ci manca solo da aspettare i nuovi padroni e vedere se avranno voglia di ridere pure loro.
@DiegoMinonzio
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