Dei numeri si è già detto: il sistema delle carceri in Italia è al collasso, lo ha certificato martedì, con evidenza spiazzante, il ventesimo rapporto dell’associazione Antigone: sono 60.480 i detenuti, per 47.110 posti effettivamente disponibili, con un tasso di sovraffollamento reale del 130,6 per cento. Il prezzo più alto di questa situazione è quello dei suicidi dietro le sbarre, un’emergenza nell’emergenza, arrivati alla insostenibile soglia (se si può parlare di sostenibilità, in un conto così necessariamente cinico) di 58 casi da inizio anno, punta di un iceberg fatto soprattutto di povertà estrema, dipendenze, disturbi psichiatrici, il tutto ben mischiato e gettato senza troppi pensieri dentro i muri di cinta dei nostri istituti.
Ma dei numeri, appunto, si è già detto fin troppo. Qui si vuole invece indagare la resistenza diffusa della classe politica e il pensiero, altrettanto diffuso, della società civile, rispetto a questa autentica piaga della Giustizia, per la quale l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Tra le varie reazioni al rapporto di Antigone, quella del cappellano del carcere di Busto Arsizio ha il merito di svelare il nostro pregiudizio culturale: «Se in un cinema dovesse esserci in sala una sola persona in più del dovuto, partirebbero le multe. Ma lo Stato non multa se stesso quando, ad esempio, nel penitenziario di Busto Arsizio vi sono 430 persone anziché 240». Così scrive don David Maria Riboldi sulla Prealpina. A dire la verità un sistema sanzionatorio esiste, ed è stato introdotto proprio in seguito alla condanna dell’Italia, nel 2013. Se il tribunale riconosce che il detenuto è stato trattato in modo non conforme agli standard della Corte europea, è previsto un risarcimento. Nel 2022, ultimo anno disponibile, le istanze accolte sono state oltre 4.500 (più della metà di quelle presentate). Magra consolazione per chi vede riconosciuto il suo diritto calpestato: lo Stato riconosce per ogni giorno di detenzione non conforme 8 euro di risarcimento, praticamente un trancio di pizza.
Ma torniamo al ragionamento del cappellano di Busto. Don Riboldi ha ricordato come dal 1948 al 1992 i nostri politici abbiano approvato 23 provvedimenti di clemenza, tra amnistie e indulti. Su Repubblica Luigi Manconi ha ricordato che l’ultimo indulto, che risale al 2006, diede risultati positivi sul fronte della recidiva, con un tasso di reiterazione dei reati più che dimezzato rispetto a chi uscì senza quel beneficio.
Sempre su Repubblica, in un’intervista il sottosegretario alla Giustizia Andrea del Mastro sostiene di essere contrario a liberazioni anticipate, in nome della difesa del principio della «certezza della pena». Ma che «certezza della pena» è quella che rinchiude per 20 ore al giorno 15 persone in celle da 4 senza aria condizionata? Che tipo di rieducazione è in grado di garantire lo Stato italiano, il quale tramite i suoi tribunali riconosce che lo standard minimo di detenzione non viene rispettato, all’incirca per 4.500 persone all’anno?
Otto anni fa i detenuti erano meno di 50mila. Cosa è successo dal 2016 per portarne dietro le sbarre altri undicimila, al ritmo di quasi duemila in più l’anno? Sono aumentati i reati? Le statistiche ci dicono che sono in continua diminuzione.
Il dibattito in aula atteso per mercoledì prossimo sul decreto legge impropriamente chiamato «svuota carceri» appare già superato, perché gli stessi proponenti sanno che non è la soluzione. Ma il pregiudizio non è solo nei palazzi romani. L’invito del presidente di Antigone Patrizio Gonnella, che riprendendo Calamandrei, dalle colonne del Manifesto, propone ai parlamentari di andare in carcere, perché «bisogna avere visto» per comprendere, va esteso a tutti noi. Se qualcosa si è rotto, è proprio quel canale di coesione che ci siamo illusi di poter colmare con le parole d’ordine di una giustizia che troppo spesso non ha più a che fare con l’umano.
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