Calma e gesso: sono i ballottaggi di domenica prossima a decidere il futuro della Francia. Per ora sappiamo che il Rassemblement national di Marine Le Pen è il primo partito (con la contenuta soddisfazione di Giorgia Meloni perché è un assist per Salvini), che il Nuovo Fronte popolare (un cartello elettorale difensivo fra populisti di sinistra, socialisti riformisti, ecologisti) è il secondo e che l’area centrale di Macron è stata affondata e declassata da maggioranza relativa dei deputati a minoranza assoluta.
Il presidente intendeva unire il centro, dividere la sinistra, mettere ai margini la destra radicale: un fallimento. Anzi, la sinistra eterogena sarà decisiva e comunque gli presenterà il conto. Il doppio turno potrebbe rivelarsi una trappola per l’estrema destra, perché al primo colpo si sceglie con il cuore, mentre al secondo scatta (teoricamente) il meccanismo del voto utile: quando non c’è il candidato ideale, ci si indirizza verso quello meno lontano. Ci si tura il naso, secondo la nota espressione di Indro Montanelli riferita al contesto italiano, e che nel paesaggio parigino chiamiamo forza della disperazione. Da qui i patti di desistenza e le triangolazioni, per cui i candidati deboli si ritirano a favore di quelli più sicuri, anche se non del proprio partito, ma i meno distanti.È quel che, in nome del sussulto repubblicano e del “cordone sanitario” anti Le Pen, potrebbe avvenire, in modo selettivo, tra i gruppi presidenziali e centristi da un lato e la sinistra plurale dall’altro: impresa estrema. Già c’è una novità: se l’emergente Bardella aveva detto che non avrebbe governato senza maggioranza assoluta, ora invece un alto dirigente del Rassemblement ha sostenuto il contrario: il potere è alle viste.
Il voto della paura che ha mobilitato gli elettori, consapevoli di cosa è in gioco, ha detto due cose: il confronto politico si polarizza sulle estreme e il presidente, dominus della Quinta Repubblica, s’indebolisce. Come ha scritto il quotidiano moderato “Le Figaro”, che parla di «tragedia francese», l’alternativa è fra l’avventurismo e il caos istituzionale. Le Pen porta a compimento il processo di “frequentabilità” con le istituzioni, iniziato una ventina di anni fa, lasciando in sonno l’estremismo sotto il doppiopetto e la cravatta resa obbligatoria ai suoi parlamentari. Il radicalismo non scompare, resta lì nel parcheggio dell’utilità.
Oggi si propone come un partito al pari degli altri, e anche gli ambienti economici che contano sembrano pensarla così, ma il modello è la “democrazia illiberale” di Orban, che nel frattempo in Europa ha formato un suo gruppo a conferma che i nazionalismi tendono a frammentarsi: alzano confini pure fra loro, fra simili. Le Pen ha cambiato approccio e metodo, non la visione della società e il suo essere esterna allo Stato di diritto: la proposta di escludere i cittadini con doppia nazionalità dalle funzioni dirigenti dell’amministrazione costituisce uno strumento di discriminazione, l’essenza dell’estrema destra francese.
Macron, che in questi sette anni non ha mai voluto costruire un partito vero e proprio, è ridotto ai minimi termini, preso di mira da una contestazione trasversale che lo riguarda come persona in sé. Nonostante sia definito il “presidente dei ricchi”, è pur sempre il politico che – in una Francia dove il 40% degli operai vota per l’estrema destra – ha alzato il salario minimo 11 volte e il potere d’acquisto dei cittadini è cresciuto di circa il 2,7% in media all’anno.
Qualunque sarà la debole maggioranza, la convivenza con il premier è tutta da inventare. La coabitazione è un equilibrio instabile e la caratura è data da strategia e temperamento, soprattutto dovesse prevalere il salto nel buio, perché le coabitazioni sono avvenute fra leader che si riconoscevano nella cultura repubblicana. Il Rassemblement ne è fuori. I governi tecnici non sono contemplati e, nella verticale del potere della République, non c’è molto spazio per il compromesso.
Il presidente detiene il “dominio riservato” di Esteri e Difesa, ma anche qui s’è aperta la discussione, mentre i cordoni della borsa sono in mano al premier. Se va meno male del previsto, sarà comunque un quadro conflittuale. In un Paese dalle emozioni calde, con forti disuguaglianze territoriali, in una società molto divisa e dai corpi intermedi assai deboli. Percorsa da ondate protestatarie e dalla incomunicabilità fra l’élite globalista delle metropoli e la massa popolare della provincia profonda arroccata a difesa dell’esistente.
I mercati finanziari, che avversano l’incertezza, sono in agguato: il debito pubblico francese è il più alto d’Europa in valore assoluto (3.101 miliardi l’anno scorso, 238 più del nostro) e quello maggiormente in mani estere. Gli stessi programmi economici di destra e sinistra sono inverosimili. Oggi, però, il rischio è essenzialmente politico, va al cuore dell’integrazione civile e dello Stato di diritto, sia all’interno sia nella proiezione europea. Per Bruxelles non è un buon viatico, dato che già l’asse franco-tedesco ha perso smalto. Macron e Scholz hanno vinto il primo tempo della partita delle recenti nomine ai vertici Ue, ma l’agenda degli indirizzi politici non rispecchia pienamente le loro posizioni. La retromarcia di Parigi può tradursi nella paralisi dei dossier più sensibili. La prospettiva di una stagione difficile per la Francia piomba impietosa mentre dall’America, dopo lo scivolone di Biden, giungono brutte notizie. Attenzione alla “tempesta perfetta”.
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