I danni che fanno gli amici. Se c’è una lezione da mandare a memoria nella penosa disputa sull’intitolazione dell’aeroporto di Malpensa, tipico vaudeville della più tipica politichetta dell’ancor più tipica Italietta, di destra, di centro e di sinistra, è proprio questa. Se c’è qualcuno che ti combinerà un guaio, cercalo in casa tua.
Nessuno può ergersi a esegeta, interprete o ventriloquo del pensiero di Silvio Berlusconi, figura divisiva, camaleontica, straordinaria nel senso etimologico del termine come nessuno mai, ma forse non si sbaglia se si pensa che la sua vera aspirazione, il suo vero sogno irrealizzato e irrealizzabile era quello di diventare, in un modo o nell’altro, prima o poi, un nome unanimemente condiviso. Che proprio lui, lui che ha basato sugli exploit, sui colpi di scena, sulle mosse del cavallo tutta la sua esistenza, alla fine potesse, grazie alla sacrale azione del tempo che separa il grano dal loglio e che fa decantare la fuffa dalla polpa, assurgere alla dimensione se non di padre della patria e forse nemmeno a quella di statista, almeno a quella di personaggio centrale della politica e del costume. E che questo fatto oggettivo venisse accettato un po’ da tutti. Anche dai nemici. Soprattutto dai nemici. E invece, eccoci di nuovo qui.
La decisione improvvisa, furbastra e del tutto non condivisa del ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini di intitolare il più importante scalo italiano al Cavaliere è una sciocchezza non tanto per le finalità smaccatamente strumentali, ma proprio per questo motivo. Per aver fatto ripiombare quella figura, che con il tempo e con la memoria aveva appena avviato un lungo percorso che via via l’avrebbe depurata dalle scorie della polemica spicciola, dei veleni storici e postumi, delle polemicuzze da buvette per posizionarla in maniera più corretta e più laica all’interno della tormentata storia politica e sociale italiana, finalmente fuori da quel trentennio di furore ideologico che l’ha accompagnata dagli inizi di Milano 2 all’ambizione di diventare presidente della Repubblica, ecco, per averla fatta ripiombare nel circo delle risse a pesci in faccia, della lotta nel fango, del wrestling di periferia, del grufolìo dei giornali, delle tv e dei social. Insomma, nell’eterno penosissimo derby tra quelli (metà Italia) che, in piena sindrome fantozziana, lo idolatrano come un santo, un apostolo, un martire, un genio, uno scienziato, un inventore, un premio Nobel e anche un premio Pulitzer e pure un premio Oscar, un megadirettore laterale, naturale e siderale e quelli (metà Italia) che, in piena sindrome trinariciuta, lo considerano un farabutto, un mascalzone, un delinquente, un ladro, un evasore, un estorsore, un corruttore, un anacoluto della storia, un puttaniere, un pedofilo, un mafioso, un pinocchio, un ignorantone, caprone, cafone e bla bla bla.
Da una parte sono scattati gli appelli alla Patria sulla sacrosanta intitolazione, sull’idea più giusta e nobile del secolo, sul meritorio riconoscimento alla statura imprenditoriale, politica, calcistica e televisiva del tycoon più tycoon del mondo con tutto uno sbavare e un leccare di piedi e di scarpe post mortem onestamente imbarazzante, dall’altra il trionfo dei meme, delle battute da caserma, delle barzellette, della caciara sull’Italia spaghettara che intitola gli aeroporti ai pregiudicati e che si fa sempre riconoscere, e perché allora non dedicare Malpensa a Cochi e Renato o a Mazzola e Rivera? E tutti giù a ridere, a sghignazzare e a sbudellare oppure, nella versione talebana degli intransigenti manettari o beatificanti, a ululare, a maledire, a inveire, a buttarla in vacca come sempre nella repubblica delle banane.
Al solito, tutti lo usano come una bandiera da sventolare a proprio uso e consumo, di sinistra o di destra che sia. Come un santino. O come un santino demoniaco, che è la stessa cosa. Ed è proprio questo che ne impedisce la comprensione all’interno di una prospettiva storica e che lo condanna a una dimensione totalmente superficiale, da gazzarra, da avanspettacolo, da Luxuria vs Vannacci, mentre è ovvio che lui è stato molto di più. O molto di meno. Ma di certo molto di diverso.
In fondo, passato un quarto di secolo dalla morte, forse solo adesso si riesce a posizionare correttamente nel tempo e nello spazio Bettino Craxi, un altro soggetto divisivo come pochi, e se ne coglie il profilo di personaggio storico, al di là di tutte le faide e di tutti gli ululati dei due consueti branchi contrapposti. Nella sua complessità, con i suoi picchi e le sue cadute, con le sue gesta da statista e le sue ombre da uomo di potere, magari del potere più sordido - ma il potere è sordido in quanto potere, altrimenti non sarebbe potere - ora stiamo entrando in una fase in cui Craxi inizia a essere inquadrato nel ruolo che gli spetta, un ruolo di rilievo, di grande rilievo, che non può essere liquidato né con una ridicola beatificazione né con una patetica mostrificazione.
Lo stesso dovrebbe accadere anche con Berlusconi. E sarebbe giusto che accadesse. Perché quella cosa lì, il berlusconismo nel senso più ampio del termine, che travalica i confini e innerva, piaccia o non piaccia, la società e la cultura italiane, non può essere sbrigativamente bollato come mera storia criminale né tanto meno come inarrivabile cavalcata di un gigante. Fanno ridere entrambe, tanto sono false e tanto sono maldestre. Lui dovrebbe essere lasciato fuori da tutto, fuori dalle polemiche, fuori dalle strumentalizzazioni, fuori dalle appropriazioni. Fuori da tutto. Andrebbe lasciato in pace. In modo che in un futuro, con una vista prospettica storica e non emozionale, si possano avere gli strumenti per valutarlo a pieno.
Ci vogliono almeno trent’anni per capire la reale grandezza di un Papa o di uno scrittore, uno scrittore vero, non quelli da premio Strega. Figurarsi se non ne servono altrettanti per giudicare Berlusconi. Se ne facciano una ragione i suoi servi, i suoi carnefici e i suoi parassiti.
@DiegoMinonzio
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