Autonomia regionale, i freni alla riforma

Contro la legge di attuazione dell’autonomia regionale sono state depositate in Cassazione un milione e 300mila firme di cittadini (molte di più delle 500mila prescritte), che hanno aderito all’iniziativa di referendum abrogativo.

Nella richiesta si dichiara che la legge è un grave attacco all’impianto costituzionale e all’unità del nostro Paese, in quanto propone differenti livelli di autonomia tra le Regioni, divide l’Italia e danneggia sia il Sud che il Nord, compromette le politiche ambientali, colpisce l’istruzione e la sanità pubblica, aumenta la burocrazia, complica la vita alle imprese e frena lo sviluppo. Dopo il necessario controllo formale la Cassazione trasmetterà il quesito alla Corte Costituzionale che dovrà esprimere il giudizio di ammissibilità.

In proposito va rilevato che la legge è pienamente ammissibile in quanto solo formalmente collegata alla legge di bilancio contro la quale la Costituzione vieta il referendum. Infatti, la legge sull’autonomia non comporta spese per lo Stato e quindi non ne tocca il bilancio. D’altra parte, se fosse sufficiente il solo collegamento formale per invalidare un referendum allora si potrebbe applicare questo meccanismo a qualsiasi legge. Inoltre, contro l’autonomia sono stati presentati anche due ricorsi di illegittimità costituzionale dai consigli regionali di Campania, Puglia, Emilia Romagna, Sardegna e Toscana, uno per la cancellazione totale della legge e l’altro per quella parziale come “strumento di riserva”. La Consulta ha anticipato a novembre il giudizio sui ricorsi diretti delle Regioni, che potrebbe, in caso di accoglimento degli stessi, rendere superfluo il referendum abrogativo.

La legge potrebbe essere dichiarata incostituzionale in quanto applica soltanto il comma 3 dell’art. 116 della Costituzione il quale recita che «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia possono essere attribuite ad altre Regioni con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, nel rispetto dei principi di cui all’art. 119» della stessa Costituzione. Tali principi sono proprio quelli di sussidiarietà e di solidarietà sociale a favore delle Regioni economicamente più deboli, che non sono stati applicati dalla legge in questione. Infatti, il comma 3 dell’art. 119 della Costituzione prescrive che «la legge dello Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante».

Ebbene il fondo è stato istituito ma è privo di stanziamento, in quanto quello iniziale di 4,6 miliardi è stato poi cancellato dal Governo. Inoltre, non risulta applicato anche il comma 5 dello stesso art. 119 della Costituzione, il quale stabilisce che «per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni». In proposito nulla è, infatti, stato previsto dalla legge.

La legge sull’autonomia concede al Governo 24 mesi per determinare livelli e importi dei Lep (livelli essenziali delle prestazioni) che le Regioni dovranno garantire per l’attribuzione delle materie richieste fino ad un massimo di 23. Stato e Regioni avranno tempo 5 mesi per arrivare ad un’intesa, che dovrà essere approvata dal Parlamento. Stabilire, però, il costo dei Lep sarà molto difficile. Istituti specializzati hanno quantificato gli importi necessari tra i 100 e i 200 miliardi. Una spesa enorme che renderà non applicabile la riforma, perché la legge dispone che sulle materie trasferibili che prevedono i Lep, se non ci saranno le risorse, non si faranno intese, perché la riforma dovrà essere a costo zero per lo Stato.

Pertanto, sembra opportuno attendere l’esito del referendum e dei ricorsi costituzionali, oltre che, naturalmente, la definizione degli importi dei Lep, per superare i dubbi e i rischi della riforma, come richiesto anche da autorevoli esponenti della maggioranza di Governo.

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