Autonomia, ennesima occasione persa?

Il vero rischio di questa autonomia differenziata che tanto sta facendo gongolare i leghisti della prima e ultima ora è che sia l’ennesima occasione sprecata per dare un assetto davvero moderno a questo Paese. Che nella sua storia ha indubbiamente peccato di un centralismo quasi atavico, basti pensare che tra l’enunciazione delle Regioni nella Carta Costituzionale e la loro materiale nascita sono passati qualcosa come 23 anni. «Poteva essere l’occasione per realizzare un obiettivo atteso da tempo, per attuare finalmente una maggiore uguaglianza sostanziale e far progredire l’Italia sul piano dei diritti, della coesione e dell’inclusione sociale, ma non è stato considerato» è il rilievo quanto mai opportuno di Vanessa Pallucchi, portavoce del Forum Terzo settore.

Opportuno perché se è vero che la valorizzazione delle autonomie è alla base del corretto funzionamento di uno Stato moderno, lo è altrettanto il fatto che riforme di tale portata non si fanno a colpi di maggioranza (errore già fatto dal centrosinistra con la riforma del titolo V, seppure confermata da un referendum con partecipazione del 34%) ma con una condivisione la più ampia possibile. A maggior ragione in un Paese dove la coperta è sempre più corta e dove a ogni angolo i conti pubblici si fanno sempre più problematici e con manovre economiche che si annunciano al limite del sostenibile. Roba da lacrime e sangue.

Si potrebbe dire (ed è vero) che è proprio in questi momenti che serve un’assunzione di responsabilità, ma questa non pare ritrovarsi in modalità di attuazione dell’autonomia che da un lato rimandano - correttamente - il dato politico a un percorso condiviso Stato-Regioni, ma dall’altro non danno indicazioni certe sulla definizione dei Lep, ovvero i Livelli essenziali di prestazione. O meglio, sulla loro modalità di finanziamento, il che rischia di aumentare il divario già esistente tra Regioni povere e ricche.

C’è chi ha visto nell’esibizione di antichi vessilli separatisti (o più semplicemente nordisti) alla Camera da parte dei deputati leghisti una sorta di ritorno a quei temi tra l’identitario e l’egoista che avevano caratterizzato i primi tempi del movimento: quelli dove Lombardia e Veneto venivano rappresentate come una gallina dalle uova d’oro per le realtà meridionali e la Calabria (dove le truppe salviniane sono poi andate a cercare voti nel tentativo di darsi una parvenza nazionale) omaggiata dell’aggettivo saudita in uno dei manifesti più famosi dell’epoca. In realtà, molto più semplicemente, per la Lega è il raggiungimento di un traguardo inseguito per anni e in molteplici forme, da quelle più radicali e secessioniste fino all’autonomia.

Il punto ora però è un altro, la sua concreta attuazione e lo scenario non è dei più rassicuranti, sia dal punto di vista economico che politico. Sul primo versante è sicuramente vero che a una maggiore responsabilità corrisponde più efficienza, ma spesso il concetto non va oltre la carta. Senza spostarsi troppo a Sud, in Lombardia ci sarebbe quella Trenord esempio di federalismo su rotaie che non sta proprio dando prova d’eccellenza. Semmai pare l’anticipazione di quel complessi equilibri Stato-Regione da trovare sulle 23 materie potenzialmente oggetto dell’autonomia, a maggior ragione di fronte a finanze esangui e meccanismi di perequazione tra l’approssimativo e lo sconosciuto.

Spostandosi poi davvero a Sud, sono tutte da valutare le reazioni di quell’elettorato (ma anche di qualche Regione) preoccupato dalle possibili conseguenze della riforma e che ha già iniziato a farsi sentire soprattutto in FdI, forza trainante del centrodestra, ma anche in Forza Italia. Tanti fronti aperti che, al di là delle enunciazioni di principio su tempi e modalità dell’iter per l’autonomia, non fanno pensare a una rapida soluzione. E che semmai aumentano il timore che questa riforma a colpi di (sola) maggioranza possa essere l’ennesima occasione persa per modernizzare il Paese e dare risposte davvero responsabili.

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