Astensione patologica e Democrazia ammalata

Le ultime elezioni regionali hanno confermato che metà dell’elettorato continua a nutrire grave sfiducia nei confronti della classe politica, di destra e di sinistra. Si tratta di una costante di tutti gli appuntamenti elettorali nei quali la parte vittoriosa finge di ignorare che il consenso raccolto sia da ricondurre, in realtà, ad una minoranza.

In verità, poiché questo atteggiamento accomuna entrambi gli schieramenti, vien da pensare che l’importanza della posta in palio faccia perdere di vista il deficit di rappresentatività di ciascuna forza politica. Potrà apparire paradossale ma il responso elettorale non rappresenta, come vorrebbe la retorica populista, l’espressione della “volontà popolare” ma costituisce il risultato, meramente tecnico (verrebbe da dire, pseudo-politico) in forza del quale, una minoranza, recandosi alle urne, assurge al rango di maggioranza, che ha preferito disertarle. Piaccia o no, la democrazia funziona in questo modo e non potrebbe essere altrimenti dato che sarebbe impensabile vincolare la validità di un esito elettorale ad una soglia di affluenza minima. Nei sistemi democratici, pertanto, la minoranza che decide in luogo della maggioranza rappresenta una sorta di riconoscimento per quella “partecipazione di tutti i lavoratori alla organizzazione politica, economica e sociale del Paese” che l’art. 3 della Costituzione prevede come requisito costitutivo e irrinunciabile della democrazia. Questa riflessione nasce dall’esigenza di non sottovalutare le crescenti astensioni registrate negli ultimi anni che inducono il cittadino a provare disprezzo per una classe politica che, secondo alcuni, avrebbe il coraggio di festeggiare una “vittoria” elettorale perfino con il 90 per cento di astenuti.

Il problema, pertanto, non è la legittimità del risultato che è incontrovertibile. Come dicevamo, il vero problema è connesso al grado di rappresentatività che un partito o un esponente politico può vantare, sia nelle sedi decisionali che nel dibattito pubblico. Rappresentanza e rappresentatività costituiscono notoriamente i capisaldi di una democrazia parlamentare nella quale i cittadini conferiscono ai politici il mandato di interpretare le loro aspettative. Il rapporto tra governanti e governati si fonda indefettibilmente sulla “partecipazione” che si estrinseca, in modo solenne, al momento del voto e che, dopo le elezioni, viene esercitata in tutte quelle modalità che consentono la formazione di una opinione personale sulle vicende umane nel mondo.

Occorre riconoscere che in tutte le democrazie è sempre esistita una quota di elettori refrattaria alla partecipazione, nella duplice accezione che abbiamo tratteggiato. I dati degli ultimi anni ci inducono, tuttavia, all’amara constatazione che nel nostro paese l’indifferenza nei confronti della politica non appartenga più alla fisiologia di una democrazia imperfetta ma alla patologia di una democrazia profondamente malata. Risulta, pertanto, indifferibile restituire piena dignità alla rappresentanza costringendo i partiti ad aprirsi al territorio, sia nella scelta dei candidati che nel confronto con i cittadini, oggi mestamente relegato nell’universo dei social e delle tv. La democrazia rappresentativa ha urgente bisogno di ridare al cittadino il potere di identificarsi nei candidati premiandoli con il voto o non rivotandoli se ritenuti inadempienti. Le liste bloccate, che hanno sottratto agli elettori il diritto di scegliere i propri rappresentanti, hanno inflitto un duro colpo alla rappresentanza persuadendo il cittadino che l’unica preoccupazione del ceto politico sia quella di blindare una rendita di posizione che collide con lo spirito di un mandato conferito per tutelare l’interesse generale.

Non solo. Le frequenti transumanze da un partito all’altro hanno incoraggiato il convincimento che ai nostri politici interessino ben poco i problemi del cittadino (le liste d’attesa, i salari e le pensioni da fame, la svalutazione del titolo di studio..). Basti pensare che, nella scorsa legislatura, siano avvenuti più di 400 “cambi di casacca” e che, dopo appena due anni dell’attuale legislatura, ne siano già avvenuti 52 (43 alla camera e 9 al Senato). Al paese servirebbe una svolta ma, ad oggi, non c’è nessuno in grado di garantirla. Come diceva Longanesi, “non sono le idee che mi spaventano ma le facce che rappresentano queste idee”. 

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