Negli Stati Uniti, Paese della “mobilità” per antonomasia, è stata inventata un’espressione efficace per descrivere il fenomeno di tutte quelle persone che lasciano un determinato luogo - azienda privata o Stato che sia - perché non condividono la gestione di un’organizzazione. Si dice che queste persone “votano con i piedi”, perché segnalano - con il loro spostamento - di preferire un altro modo di condurre gli affari o la cosa pubblica. In Italia, stando alle statistiche, è tornato a crescere il numero di giovani che “votano con i piedi”, abbandonando la nostra nazione. Tra loro, in particolare, aumenta la quota di laureati, il che implica una perdita secca ancora maggiore per l’Italia.
Partiamo dai dati sull’emigrazione, analizzati di recente in alcune ricerche della Fondazione Nord Est. «Nel 2022 e nel 2023 quasi 100mila giovani italiani hanno lasciato il Paese, mentre solo poco più di 37mila sono rientrati. Nel periodo 2011-23 (tredici anni) il totale delle cancellazioni anagrafiche per l’estero sale a 550mila, contro 172mila iscrizioni (rientri), per un saldo negativo di 377mila persone». Il dato reale, stimano ancora la Fondazione Nord Est e il suo direttore scientifico Luca Paolazzi, potrebbe essere tre volte più ampio visto che molti mantengono a lungo la residenza italiana. Nei tredici anni considerati, il saldo negativo più ampio con l’estero lo ha segnato la Lombardia (-63.639), seguita dalla Sicilia (-41.910) e dal Veneto (-34.896). Fino al 2018, la quota dei laureati sul totale di questi emigrati era inferiore al 30%, poi ha cominciato a crescere arrivando al 43% nel 2022, l’ultimo anno per il quale sono disponibili dati Istat consolidati. Nel caso del Friuli-Venezia Giulia e della Lombardia, oltre la metà dei giovani che sono partiti per l’estero aveva un titolo di laurea.
La retorica sulla “fuga dei cervelli”, non c’è dubbio, esagera spesso con vittimismo e provincialismo. In un mondo proverbialmente globalizzato, infatti, non possiamo assimilare ogni periodo di studio, formazione o lavoro all’estero a una forzatura violenta o una bocciatura del Paese d’origine. Anzi, una qualche “circolazione dei cervelli” a livello internazionale è decisamente auspicabile. Tuttavia l’entità del saldo migratorio negativo italiano indica purtroppo un percorso spesso a senso unico e dunque ben lungi dall’essere virtuoso. Perdiamo capitale umano in uscita, insomma, senza acquisirne in quantità comparabile dal “rientro dei cervelli” o da un’immigrazione qualificata.
Sempre la Fondazione Nord Est, utilizzando stavolta i dati dell’Ocse sul costo annuo per ogni alunno sostenuto (al 2021) dall’amministrazione pubblica per educazione primaria, secondaria e terziaria, ha provato a stimare il valore del capitale umano che fuoriesce dal nostro Paese. Risultato: «Nei tredici anni 2011-23 il valore del capitale umano che se ne è andato dall’Italia, incorporato nei giovani emigrati di 18-34 anni, è pari a 133,9 miliardi di euro, con la Lombardia a svettare per perdita (22,8 miliardi), seguita dalla Sicilia (14,5) e dal Veneto (12,5)». E questo, intendiamoci, è soltanto un calcolo approssimativo della perdita secca che subisce il Paese. È infatti impossibile misurare quanto tutto il sistema stia perdendo in termini di idee potenziali, propensione al rischio e gusto per l’innovazione, tratti solitamente collegati alla popolazione più giovane e scolarizzata di ogni nazione.
Diciamo subito che non c’è bonus o sgravio fiscale una tantum che possa invertire una tendenza così disastrosa. Il «voto con i piedi» è infatti spesso frutto di una decisione razionale e meditata. Tanti giovani si affacciano a un mondo del lavoro che, nel pubblico come nel privato, negli ospedali come nelle università, troppe volte non trova altro da offrirgli che un posto in fondo a una fila ordinata secondo criteri di anzianità e non di merito. Questi stessi giovani crescono in un Paese la cui classe dirigente appare impegnata a inseguire altre priorità che non il loro futuro. Come ha ricordato il Governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta, per esempio, «l’Italia è l’unico Paese dell’area dell’euro in cui la spesa pubblica per interessi sul debito è pressoché equivalente a quella per l’istruzione». Per non dire di un dibattito sulle riforme che a lungo si è concentrato più sulle pensioni e meno sulle misure che favorirebbero la formazione di nuove famiglie. Così l’emigrazione dei laureati, da sintomo grave di un Paese afflitto da “malessere demografico”, finisce per acuire lo stesso malessere.
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