Sandro Pertini è stato il primo demagogo italiano. Anzi, no, non tanto semplice demagogo - la demagogia è una degenerazione eterna degli organismi sociali, che attraversa la storia dei popoli dall’antica Grecia fino ai giorni nostri e di certo a quelli futuri - quanto invece il primo demagogo mediatico, il primo demagogo televisivo, il primo demagogo digitale, se il digitale fosse già esistito a quei tempi.
E c’è stato un momento preciso, a suo modo un momento storico, nel quale il più amato presidente della Repubblica italiana ha scolpito una volta per tutte quella figura nel nostro immaginario collettivo: la sua apparizione inaspettata in diretta televisiva, una diretta di diciotto ore a reti Rai unificate, durante gli attimi più febbrili della tragedia di Vermicino, di cui si sta celebrando il quarantennale. È stato lì che è saltato tutto: la struttura rigida e codificata dell’informazione, la carenza di mezzi tecnici per seguire senza interruzione un evento del genere, la distinzione tra ragione ed emotività, il ruolo di intermediazione dei professionisti della comunicazione, l’irrompere della presa diretta, sgargiante vessillo della vera democrazia informativa realizzata sulla terra e che invece già celava dietro le sue rubiconde parole d’ordine la più devastante delle truffe populiste.
È stato proprio in quell’occasione che Pertini ha trasformato la sua indole demagogica in vera e propria autobiografia della nazione. Ci sono le spietate parole di Indro Montanelli a delinearne il profilo, così distante dal santino impalcato dalla retorica resistenziale che ne ha talmente ingigantito la statura che neppure ora, a trent’anni dalla morte, riesce ad essere scalfita da un’analisi critica e laica. Ogni paese si merita i suoi eroi. Secondo Montanelli, Pertini era sostanzialmente uno sprovveduto - e in questo la pensava esattamente come Nenni: «L’unica cosa che leggeva Sandro al confino era L’Intrepido, il resto del tempo lo passava a giocare a briscola o a scopa con i nostri guardiani» – in possesso però di uno straordinario fiuto per il pubblico al punto da assecondarne alla perfezione tutti i vizi e tutti i vezzi. Pronunciava terribili requisitorie, sempre a favore di telecamera, contro la classe politica a cui apparteneva, i suoi discorsi di fine anno erano delle vere e proprie sceneggiate, e soprattutto non perdeva mai occasione di dare spettacolo, seguendo in lacrime tutti i funerali, non mancandone nemmeno uno, esemplare a questo proposito la posa affranta e plastica durante quelli di Berlinguer, «baciando torme di bambini e toccando sempre quel tasto del patetico a cui noi italiani siamo particolarmente sensibili».
E se questo impietoso ritratto del grande giornalista è vero - ed è vero, checché ne dicano le vestali del pertinismo in servizio permanente effettivo - allora nessuno più di lui, ecco la sua vera modernità, la sua vera eredità, poteva incarnare alla perfezione quello che accadde tra il 10 e il 13 giugno del 1981, tre giorni nei quali l’Italia visse una delle sue tragedie più terribili e che, soprattutto, segnarono un cambio di paradigma nel racconto della realtà. Nella sua percezione. Nella sua comprensione. Cosa c’entrava il presidente della Repubblica con i tentativi disperati e pasticciati di tirar fuori il bambino dal pozzo artesiano? Quale la sua utilità tecnica? Quale il suo supporto morale? Quale conforto avrebbe mai potuto fornire al piccolo parlando con lui al microfono o alla madre stringendogli le mani tutto accigliato? Forse non se ne era neppure reso conto, da brav’uomo pittoresco e folcloristico qual era, o forse sì, da astuto annusatore di piazze, ma in quel momento la politica espressa al suo massimo grado gerarchico tradiva se stessa, diventava altro da sé, diventava gente, diventava massa, diventava popolo, tutto impulsi ed emozioni e ire e livori, diventava come noi, ritenendo che diventare come noi fosse una cosa positiva. E invece non lo era affatto, perché nessuno sano di mente vorrebbe essere come noi, quanto al contrario vorrebbe essere meglio di noi, ed è questo che dovrebbe essere sempre la politica. Essere meglio di noi, ma molto, molto meglio di noi, e la deprimente constatazione che invece sta andando da tempo immemore in direzione esattamente contraria dovrebbe darci alcune risposte sullo sfascio culturale, etico e strategico che forniscono ogni giorno i nostri statisti con i loro diplomi di scuola per corrispondenza.
Ma non solo. In quei giorni, alla stessa stregua, i media iniziarono a infilarsi nel cunicolo sommamente demagogico della disintermediazione, del taglio dell’interlocuzione professionale, della bontà assoluta e indiscutibile della ripresa in tempo reale, senza filtri e senza gerarchia, delle cose mentre accadono, ritenendo che così ci si incamminasse verso il paradiso terrestre della verità primigenia mentre invece si iniziava a trasformare la realtà - sempre che la parola realtà abbia un senso - in un circo, un avanspettacolo, una fiera di paese con l’orso alla catena, il macaco sul triciclo, la scimmietta con l’organetto, la donna barbuta, il lancio del nano, il mangiatore di spade e, venghino, siore e siori, venghino, grande novità, il bambino cascato nel pozzo. Era finalmente arrivato il tempo magico e meraviglioso della tragedia da intrattenimento: che si fa stasera, si guarda una doccia vedo-non vedo di qualche vecchia e bazzea carampana all’Isola dei famosi oppure una mamma che piange in diretta o un migrante bambino che muore sulla spiaggia?
Appena conclusa la faccenda, appena smontato il tendone del circo Barnum, del bimbo nel pozzo non è importato più niente a nessuno. Ma ormai il dado era tratto, il Vangelo che l’unica realtà che esistesse era quella che accadeva in tivù aveva ormai rotto gli argini, diventando vera e propria ideologia, anzi, vera e propria dittatura, una volta inaugurata l’era dei social. In fondo, al povero Alfredino è andata anche bene, almeno si è evitato una diretta Instagram sul suo ultimo respiro.
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