Gli americani accusano i produttori italiani di alluminio di “dumping”, cioè di vendita di prodotti a prezzi inferiori a quelli di mercato. E impongono dazi. Sull’export di estrusi e profilati in alluminio grava l’imposizione del 13,19%.
I produttori americani di alluminio, colossi come Arconic e Alcoa in Pennsylvania, e Novelis in Georgia si trovano negli Stati che fanno da ago della bilancia. Lì si decide la presidenza per la democratica Harris o per Trump. E così l’export di aziende italiane si decide a Washington. L’Europa vista dagli Stati Uniti non è quella idillica vista dall’Italia. Il mondo anglosassone nel dopoguerra ambiva a un’Europa unita. Churchill lo sancì nel suo discorso all’università di Zurigo nel 1946. Il mondo occidentale doveva essere unito contro la minaccia sovietica. Adesso vale il contrario, più l’Europa è divisa e meno rappresenta un pericolo per l’egemonia americana.
La guerra in Ucraina rende evidente come per l’Europa il deterrente americano sia il baluardo contro le mire egemoniche russe. Gli americani insistono sul riarmo europeo. Per i produttori di armi americani si vedono ottimi affari. Anche nell’ipotesi di una concentrazione europea della difesa i giochi si faranno sempre a Washington.
Le armi hanno bisogno di un bottone rosso e di un potere politico riconosciuto in grado di premere sul pulsante quando la situazione lo richieda. Condizione che sia Russia, Cina e America condividono. È possibile per esempio prevedere a breve termine che l’Italia sottostia al comando altrui e deleghi la sua sovranità di difesa per esempio ai francesi o ai tedeschi? Sì a condizione che i partner europei accettino il comando italiano e quindi un trattamento paritetico.
Per capire dove stiamo andando occorre guardare alla politica sugli armamenti. L’Italia con Leonardo punta alla diversificazione. Lo fa con accordi mirati ad obiettivi precisi. Il carro armato con i tedeschi di Rheinmetall, il nuovo cacciabombardiere Gcap con giapponesi e britannici, per le politiche spaziali avanza il nuovo format a tre con Francia e Germania. In tutti e tre le operazioni l’Italia è presente in un rapporto paritetico. Una sovranità condivisa avanza a piccoli passi. Per Washington però i numeri di telefono non cambiano. L’eterno alleato britannico a Londra, il borioso, suscettibile ma alla fine fedele alleato di Parigi e quello della new entry tedesca di Berlino. E qui sta la novità perché la Germania è temuta. Ed è meglio includerla piuttosto che lasciarla in pasto alle lusinghe russe. L’asse Berlino-Mosca è stato avviato dai cancellieri socialdemocratici, da Willy Brandt con la Ost-Politik all’amicizia personale di Gerhard Schröder con Putin. Angela Merkel, da cristiano-democratica di sinistra, ha proseguito sulla stessa strada.
Una grande Germania, potenza egemone in Europa grazie ai prezzi stracciati del gas di Putin. Per gli americani un pugno in un occhio. Sulle ceneri del grande progetto Biden inaugura il nuovo triumvirato anti Trump. Per l’Italia un boccone amaro. Giorgia Meloni non è socialdemocratica come il tedesco Scholz e il britannico Starmer e nemmeno liberal-chic come Macron. Ma guarda oltre e vuole portare nel nostro Paese quello che la politica sembra negarle. Si succedono le visite a Roma dei grandi della finanza e dell’economia Usa. Prima Elon Musk a Roma e poi a Washington, poi Larry Fink il capo di Blackrock, fondo di investimenti di diecimila miliardi di dollari. Il primo trumpiano convinto. Il secondo segue il fiuto e vede nelle dismissioni italiane un buon affare. Ma da Washington quelle che erano le potenze europee sono pedine da giocare sulla scacchiera americana. Il pregiudizio nazionalista unisce i grandi Paesi come America, Cina e anche India, ma divide gli europei. Grandi nazioni che contano solo se unite.
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