Tra Natale e denatalità scorre un fiume di riflessioni tra il sacro e il profano, un’ondata di questioni religiose, sociologiche, universali destinata a tracimare laddove si azzardi a risolvere con le tabelline problemi che richiedono i logaritmi. Dal giaciglio del Bambino alle culle senza bambini è un viaggio denso di sfide per evitare destini catastrofici e derive nichiliste. Ogni neonato in Italia corrisponde a cinque over 65 e il dato non ha bisogno di studi statistici e di complesse ricerche per dedurre che il futuro è buio e non può essere rischiarato se non dal lume dell’intelligenza dell’uomo, dal coraggio, dalla generosità di governanti capaci di operare e sacrificarsi per una rinascita delle idee e degli ideali e non per un effimero benessere che può durare qualche lustro ma che prima o poi presenterà il conto al colto e all’inclita, al credente e all’ateo, al ricco e al povero, al bianco, al nero, al giallo. Ricordate le parole del predicatore americano James Clarke, poi riprese in salsa nostrana anche dal padre della patria De Gasperi? Un politico guarda alle prossime elezioni; uno statista guarda alle prossime generazioni.
Ora, lungi da me l’utopia di attendere che uno statista emerga dall’attuale classe politica (sarebbe come sperare di cavare oro da una miniera di carbone). Spero almeno che le menti dei nostri governanti siano illuminate da obiettivi e pensieri più ampi dei caratteri di un tweet, e con una data di scadenza più lunga di una ricotta appena aperta.
Restando però sul fronte culinario, tra affetto ed affettati misti, sottolineo l’ipocrisia dei mezzanottisti che nell’ora della messa natalizia mascherano la crisi del cattolicesimo, se è vero che ormai i credenti nel nostro Paese sono un quinto della popolazione italiana e i praticanti superano appena il 10%. Tra l’altro, la natalità è in caduta libera soprattutto nella terre dove il cristianesimo resiste e invece si riscatta in India, Cina, e via dicendo.
Scusate se non ho un pensiero incoraggiante, ma con 56 guerre disseminate nel mondo anche lo champagne millesimato sa di tappo e i milioni di bimbi sterminati dalle bombe e dalla fame rendono le bollicine del mio Natale più amare della cicuta. Insomma, giungendo al termine della mia gimkana tra i buoni sentimenti del Natale, non mi resta che precisare ai miei lettori (25 per il Manzoni, i miei quanti?) un tema di fondo. Non mi sfiora la tentazione di ergermi ad asceta, ma chi mi conosce bene sa che detesto gli eccessi. Non sopporto le tonnellate di cibo che inondano le tavole (e poi, il giorno dopo, le pattumiere), non sopporto quella valanga di giocattoli che giacciono poi dimenticati negli angoli più remoti delle stanze dei nostri ignari pargoli. Ma, soprattutto, non tollero l’assenza di pensiero con la quale gran parte di questa caterva di oggetti turbina tra i bancali e le nostre case. Senza una dedica, senza il calore di un gesto ponderato, senza un perché.
Voglio quindi esprimere la mia piena solidarietà a tutti quei supposti brontoloni che a Natale chiedono di starsene nel loro, a quei giovanotti che imbracciano il telefono e prendono l’iniziativa di proporre alla compagnia di non farsi regali inutili, ai saggi e attempati reduci della fame che sbuffano sonoramente e levano buste e pacchetti dalla spesa collettiva. A tutte queste “vittime” del bulimico bullismo natalizio delle masse dico: coraggio, avanti così. Un pacco risparmiato è un pacco guadagnato. Dedico a loro pochi miseri versi di un ateo così sconvolto dal mondo da farsi prete a cinquant’anni. Parlano di senso e silenzio, un ossimoro, di questi tempi. “Ma deve venire – scrive Clemente Rebora - verrà, se resisto/ a sbocciare non visto/ verrà d’improvviso/ quando meno l’avverto (…)/ verrà, forse già viene/ il suo bisbiglio”.
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