Quando, con l’arruffata sicumera dei liderini del Sessantotto mentre organizzavano la rivoluzione proletaria al tavolo del biliardo, uno degli strateghi della protesta studentesca ha detto in tivù che la riforma Renzi porta con sé seri rischi di “clientelarismo”, abbiamo capito che anche stavolta la grande rivolta sociale è destinata a trascolorare in una grande buffonata.
Clientelarismo. Clientelarismo. La crema della nuova generazione alla quale affideremo le sorti della nostra povera Repubblica delle banane come primo atto ufficiale gira un video nel quale, tutta compresa nel ruolo, dice basta al clientelarismo. Accompagnando l’arguta neologia con una bella spolverata di “criticità”, un pugno di “scuola di serie A e scuola di serie B”, un pizzico di “no alle disuguaglianze”, un’imburrata di “arbitrio” e un quanto basta di “vergogna”. Mancava giusto un “e lo Stato che fa per noi?”, un “far esplodere le contraddizioni del sistema” e un “cioè, vedo gente faccio cose” ed eravamo pronti per entrare in un ciak di “Ecce bombo” o in una puntata di “Samarcanda”. Sindrome vintage.
A questo punto, le opzioni sono due: o si va prendere il ragazzotto in questione e lo si spedisce in fonderia o in miniera o, meglio ancora, nella cava di rena di Rosso Malpelo a pedate nel sedere - ma questo è un ragionamento autoritario da vecchio trombone - oppure ci si fa cogliere da quell’alone di malinconia che ti pervade quando sopraggiunge l’ora mesta e tu, solo con te medesmo teco, cogli nel tuo foro interiore che nulla nel paese di Pulcinella cambierà mai verso. Dallo schema oppositorio a prescindere, quello che impedisce sempre e comunque di entrare nel merito, non si esce. Tutto il resto è fuffa. Ed è per questo che dopo cinquant’anni senti ancora oggi gli stessi pletorici, pulciosi, insopportabili slogan demagogici e assemblearisti dei mitici anni Settanta. I decenni passano, le pantere imbolsiscono, i bimbi crescono, le mamme imbiancano, ma gli ukaze restano sempre quelli.
Ora, non è certo il caso di stilare l’elogio postumo di un modello scolastico per tanti versi morto e sepolto, al quale non a caso quel genio di Fellini ha dedicato nella memorabile, grottesca e commovente scena di “Amarcord” un pezzo di cinema ineguagliabile. Ma il valore che ancora resta vivo e che ne certifica la nobiltà è che quello fosse un mondo “prepolitico” - come ricordato in un gran pezzo di Lanfranco Pace sul “Foglio” - nel quale ancora non esisteva l’intromissione molesta degli organi di rappresentanza. C’era il preside che dirigeva, il professore che insegnava e l’alunno che studiava. Se studiava veniva promosso, se non studiava veniva bocciato. Ecco il grande discrimine, il grande valore: il senso di responsabilità. La “solitudine” di tutti di fronte ai propri doveri. La certezza del giudizio: vittoria o sconfitta. E l’individuo era lui in quanto tale e non invece pupazzo, metafora di una corporazione, di una casta, di una categoria, di un sindacato o di un qualche altro pletorico corpo di rappresentanza condominiale.
Certo, era una scuola autoritaria e anche nozionista, che sarà pure una brutta cosa, ma anche quella che insegna l’uso corretto del congiuntivo - il vero desaparecido non solo delle aule scolastiche, ma anche dei palazzi del potere e della comunicazione - e delle basi della matematica, della storia e della geografia. Ma è quella che abbiamo visto negli ultimi trent’anni la giusta alternativa? E che vuol dire che i professori non vogliono essere giudicati? Che significa? E che c’è poi di male? Siamo tutti sotto esame, sempre. C’è sempre qualcuno a cui dobbiamo rendere conto: genitori, figli, amici, capoufficio, parroco, dottore, sindaco ed esattore delle tasse, moglie e amante, demonio e Padreterno. Non esiste alcuna etica nell’anarchia, ma solo infantilismo. E se il preside fosse un asino? Il mondo è pieno di capi incapaci - chiedete ai colleghi di chi scrive, ad esempio -però questo fa parte del gioco, esattamente come avere un padre ubriacone o manolesta. Ma non c’è nulla di peggio del posto assicurato per diritto divino e degli scatti di carriera solo e soltanto a colpi di anzianità, senza alcuna considerazione del merito e delle capacità.
C’è stato un momento in cui il modello gentiliano avrebbe dovuto essere ripensato e attualizzato ai tempi che cambiavano, mantenendone l’autorevolezza e l’attenta selezione del personale, invece ci si è arresi al morbo dell’egualitarismo e all’ossessione assembleare, per la quale l’unica cosa che conti è evitare il confronto, il giudizio, la valutazione, la differenza dei talenti e della voglia di fare, per starsene invece tutti quanti belli avvoltolati dentro la stessa coperta di mediocrità. Tutti uguali. Tutti assunti. Tutti tutelati. Tutti inamovibili. Tutti con paghe da fame. Tutti frustrati. Troppo difficile raddoppiare lo stipendio ai bravi e mandare a casa gli incapaci? Vasto programma.
E così, decine di sigle sindacali e ideologie cotte e stracotte e comizi alla macchinetta del caffè con il ditino alzato e sindacalisti forforosi e doppiomoralisti dello status quo e burocrati ottusi e inamovibili e ministri quaquaraquà capaci solo di cercare il consenso e di usare la scuola come clamoroso, ignobile ammortizzatore sociale e riforme raffazzonate e sceneggiate napoletane al ministero con raffiche di shrapnel di insulti di giorno per poi firmare accordicchi melmosi di notte - e anche stavolta finirà così, perché è questo il vero segreto di Fatima: chi tocca la scuola muore - e clamorose panzane sui privati cattivi e boicottaggi surreali degli scrutini e risibili rivolte adolescenziali contro le prove Invalsi.
La verità è che della buona scuola non importa niente a nessuno. Tanto meno al presidente del consiglio, che gioca a fare la Thatcher ma che poi, come un sottosegretario avellinese qualsiasi, promette centomila assunzioni in blocco, guarda caso a pochi giorni dalle elezioni. Questo sì che è un signor clientelarismo…
[email protected]@DiegoMinonzio
© RIPRODUZIONE RISERVATA