Economia
Venerdì 13 Dicembre 2024
Non ci sono solo i giovani
“Reskill” per gli over 50
La professoressa Chiara Mauri dirige la Scuola di Economia e Management della Liuc Università Carlo Cattaneo «Se aggiornato con nuove competenze un cinquantenne rende all’azienda il doppio rispetto a un ventenne»
«Se aggiornato con nuove competenze un cinquantenne rende all’azienda il doppio rispetto a un neo assunto ventenne. Mandare via un lavoratore senior per assumere un giovane a minor costo non rispetta l’etica d’impresa». Le parole di Chiara Mauri, direttrice della Scuola di Economia e Management della Liuc, professoressa ordinaria di Economia e gestione delle imprese, smontano luoghi comuni e pregiudizi duri a morire nelle aziende dove, di frequente, i cv degli over 50 viene scartato a priori.
Sul tema pesa anche il dato demografico di un’Italia in cui all’inizio di quest’anno le persone in età lavorativa (16-64 anni) erano circa 37,5 milioni, destinati a scendere di circa tre milioni nei prossimi dieci anni, in un crollo legato all’invecchiamento della popolazione. I giovani sono sempre di meno e l’età lavorativa si allunga sempre di più.
In proposito, aggiunge Mauri, «sono preoccupate anche le università. Nei prossimi vent’anni in tal senso non potremo che fare passi indietro. Le università italiane stanno andando all’estero a cercare studenti internazionali che vengano nel nostro Paese. Lo stesso vale per il mercato del lavoro».
Professoressa, si cercano molto, senza trovarli, i giovani: nelle aziende c’è un pregiudizio verso i lavoratori più anziani?
Non credo sia una questione di pregiudizio. Il tema è critico e alcuni settori a rapida trasformazione tecnologica ne sono toccati più di altri. Le persone vanno in pensione e il mercato del lavoro non compensa i posti lasciati liberi. C’è dunque un primo problema di quantità di persone disponibili, non solo di qualità. Le aziende non trovano giovani anche perché sono pochi. E su alcune professioni più nuove si fatica ancor di più in quanto dalle scuole escono in numero esiguo diplomati e laureati preparati su quelle specialità cresciute moltissimo negli ultimi anni, come tute le specialità connesse al mondo digitale a quelle dell’ambito green inteso in senso ampio.
La digitalizzazione, il green, la sostenibilità in senso vero e le tendenze sociali hanno determinato l’obsolescenza di alcune competenze proprie dei 45enni-50enni. Basti pensare all’intelligenza artificiale, che ancora non ha esercitato i suoi effetti. Parliamo di persone che magari hanno competenze solidissime, ma superate dall’evoluzione. Per tali persone la necessità è di reskill, non di upskill, in quanto non hanno bisogno di migliorare bensì di reimpostare le loro competenze.
La questione attraversa anche il settore impiegatizio più tradizionale?
Certo. Pensiamo ad esempio a un impiegato di contabilità, abituato a fare le cose in un determinato modo: oggi la via è quella della business intelligence, della rappresentazione grafica dei dati, della capacità di interpretare. Competenze molto richieste, ma nessuno le possiede fra chi fino a ieri era abituato a mansioni molto esecutive. C’è senz’altro un tema di reskill che sta interessando moltissimi lavoratori, e non è un’ipotesi.
Un problema che riguarda anche chi per fallimenti o crisi si trova estromesso dall’azienda?
Si deve investire anche su di loro, in una formazione che sia però formazione vera, di qualità elevata e non, come a volte accade, con una formazione che, essendo rivolta a chi ha perso il lavoro, porti con sé qualcosa di riduttivo se non commiserazione. La stessa cosa vale per quelle professioni dell’artigianato che hanno permesso di far crescere l’Italia. Professioni che si sono disperse, vista la difficoltà nel trovare una sarta o un sarto che, quando si trovano, oggi sono remunerati a peso d’oro. Con la formazione aggiornata dall’evoluzione tecnologica si possono recuperare tante professioni. Tuttavia non credo che quello del recupero dei 40-50enni che perdono il lavoro sia il punto centrale della questione.
Cosa intende?
Oggi il nostro Paese non vive un tema di disoccupazione bensì di riqualificazione delle competenze a cui le imprese stanno provvedendo. Sono nate moltissime tipologie di “scuole” (chiamiamole così), realtà che magari originano da società di consulenza e che fanno della formazione un business molto importante. Il loro pubblico è costituito da lavoratori di branche settoriali (e che magari sono migliaia) i quali imparano a 40 o 50 anni, a lavorare coi dati. Cosa che hanno sempre fatto, ma in modo molto operativo. Al netto del fatto che nascono anche dei business non sempre chiari, è tuttavia evidente la tendenza delle aziende nel realizzare delle proprie Academy, scuole interne anche con docenti che vengono da fuori, con l’obiettivo di costruire le skill. E non sono poche a farlo.
Secondo il quarto rapporto Ital Communications-Iisfa sull’intelligenza artificiale realizzato in collaborazione con l’Istituto Piepoli e Assocomunicatori, gli over 50 sono quelli che esprimono maggior timore per le ricadute dell’IA sull’occupazione. Cosa ne pensa?
Ogni rivoluzione fa paura ad alcuni e viene cavalcata da altri. Vediamo l’intelligenza artificiale anche nella nostra esperienza universitaria e vediamo l’intelligenza (mi passi il gioco di parole) con cui gli studenti la usano. Non possiamo guardare con paura l’IA: c’è, la si usa ed è vero che rende ancora una volta obsoleti i lavori operativi. Questo è il punto e non è una novità in quanto già l’informatica ha reso obsoleti diversi lavori. Grafici, traduttori e molto altro: oggi possono continuare a lavorare solo alzando le loro competenze. Nelle mie lezioni ai master universitari in aula ho 40enni, 50enni. In un mio recente master all’Università della Valle d’Aosta su 21 persone che hanno scelto un master di primo livello in aula c’era solo una giovane studentessa: 20 sono impiegati o piccoli imprenditori. Credo che l’università diventerà un ambiente inter generazionale dove il 40enne o il 50enne si mettono in discussione.
Dare spazio ai giovani e favorire il ricambio generazionale fra i lavoratori in azienda: qual è la giusta collocazione degli over 50 in questo quadro, che è il preferito dalle aziende?
E’ vero che è la tendenza più comune fra le aziende, ma non la condivido. Perché mandare via un cinquantenne per fare entrare un giovane che non c’è? Molte aziende scelgono di dare un bel pacchetto di soldi per fare uscire i 55enni con competenze obsolete per sostituirli con ventenni di minor costo: non è eticamente accettabile, il primo dovere di un imprenditore sarebbe quello di riqualificare i senior perché quando un imprenditore fa un’assunzione si deve prendere una responsabilità ampia. L’azienda è sua e di chi ci lavora. Se le competenze cambiano si deve attrezzare il proprio personale. Un cinquantenne ben attrezzato rende il doppio di un ventenne. Certo, i giovani costano meno e nel momento in cui si fa tale scelta questo è l’unico vantaggio. Ma l’aspettativa di vita aumenta e chi va in pensione oggi ha davanti quasi vent’anni di potenziale attività, quindi perché non riqualificare un cinquantenne? Come direttore della Scuola di Economia e Management, in università Liuc ricevo circa un curriculum ogni dieci giorni da parte di sessantenni che chiedono di venire ad insegnare in università. Non sono professori, sono ex manager che hanno ancora tanto da dare: certo non si possono collocare tutti, ma in sé il dato è interessante.
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