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Domenica 08 Dicembre 2024
Inattività e mancanza di competenze: quale futuro per il mercato del lavoro
I problemi legati alla mancanza di lavoratori, secondo un recente report presentato dall’Etui (European Trade Union Institute), affondano le radici in diversi fattori, sia ciclici, come nel caso della duplice transizione verde e digitale, che strutturali, come le tendenze demografiche. Si tratta di una lettura che conferma tante altre analisi e riflessioni sull’argomento emerse soprattutto dopo la pandemia, che ha in un certo senso accelerato ed esacerbato alcune dinamiche, come quella appena descritta, già in corso nel mercato del lavoro ma fino ad allora in parte sottovalutate. Una delle principali conseguenze delle dinamiche innescate dalla duplice transizione e dal calo demografico in cui il continente si sta sempre più addentrando è la difficoltà, da parte delle imprese, a trovare lavoratori. Per far fronte a questo problema il dibattito si è concentrato soprattutto su due azioni distinte: aumentare le competenze dei lavoratori attraverso migliori e più efficaci politiche formative, e/o attrarre i lavoratori necessari da fuori l’Ue, attraverso politiche migratorie che mettano al centro il lavoro e la sostenibilità dell’economia europea.
Queste soluzioni però, secondo il report dell’Etui, mancano di considerare alcune dimensioni del problema: in primo luogo, sebbene la mancanza di lavoratori adeguatamente qualificati possa spiegare le skill shortages in alcuni settori, questa non si applica a tutte le mansioni, soprattutto quelle dove non servono particolari abilità o conoscenze. In secondo luogo, permane in molti Paesi dell’Ue un alto tasso di inattività, pari al 25,% circa per la classe 15-64 anni. Un dato che varia però di Paese in Paese: gli inattivi sono il 33,3% in Italia, dove per altro si registra il valore più elevato in assoluto, il 26,1% in Francia, il 20,3% in Germania. In particolare quest’ultimo dato spinge a spostare lo sguardo verso altri fattori e dimensioni del lavoro, che potrebbero giocare un ruolo fondamentale nell’attirare lavoratori proprio in quei settori e in quelle imprese che faticano maggiormente: i salari, la qualità del lavoro stesso, il potere contrattuale dei lavoratori nel negoziare migliori termini per sé stessi e per la categoria. In un periodo in cui, secondo il contributo dell’Etui, i sindacati faticano a farsi interpreti delle istanze dei lavoratori, ci si potrebbe aspettare che il bisogno e la fatica delle imprese nel riempire posizioni vacanti offra ai lavoratori stessi più forza contrattuale e di conseguenza posti di lavoro, salari e condizioni migliori. Questo però non sembra essere sempre vero, poiché la mancanza di lavoratori sembra abbia apportato i benefici maggiori in termini salariali soprattutto a coloro che hanno fatto il loro ingresso nel mercato del lavoro proprio in quest’ultimo periodo e in settori dinamici, innovativi ma privi di una forte contrattazione collettiva.
Quest’ultima infatti, ispiratrice di meccanismi spesso rivelatisi virtuosi (in genere i lavoratori coperti dalla contrattazione collettiva godono di condizioni migliori rispetto ai colleghi che ne sono esclusi) potrebbe al contrario, secondo il contributo, aver in una certa misura mantenuto stabili proprio i salari di chi già godeva di una copertura di questo tipo, inibendone la crescita. La mancanza di lavoratori sembra aver avuto effetti controversi anche rispetto a elementi come l’equilibrio vita-lavoro, la riduzione degli orari e le possibilità di carriera. Se è vero da un lato che le imprese, per trattenere i lavoratori hanno spesso offerto posizioni più stabili, meglio remunerate e meno precarie, è anche vero che, data l’importanza del problema e la difficoltà nel risolverlo anche attraverso un miglioramento dell’offerta, i dipendenti hanno spesso dovuto affrontare carichi di lavori più gravosi e stressanti per colmare le lacune persistenti. Inoltre le aziende, pressate dall’urgenza di mantenere operativi i servizi operando sotto organico, hanno spesso ridotto l’investimento in formazione e sviluppo professionale. Si tratta di un’analisi che non può però non tenere conto delle tante differenze settoriali e che intercorrono tra Paese e Paese all’interno dell’Unione europea. Alcuni settori, ad esempio, specie quelli che impiegano lavoratori maggiormente specializzati o che più si prestano a forme di compensazione dell’equilibrio vitalavoro come il remote o lo smart working sono riusciti effettivamente a migliorare le condizioni e a soddisfare maggiormente le richieste dei lavoratori, aumentando l’attrattività. È certamente complesso disegnare un quadro che tenga conto dei molteplici impatti che skill mismatch e skill shortages hanno avuto su imprese e lavoratori in termini di salari, qualità del lavoro, forza contrattuale. Proprio a causa delle numerose variabili, lo studio dell’Etui suggerisce che solo una contromisura sia davvero trasversale nei benefici: è necessario uno sforzo collettivo, ma calibrato sui singoli contesti nazionali, specie quelli maggiormente critici come l’Italia, per includere nel mercato del lavoro una quota più ampia della popolazione in età lavorativa. Non si può prescindere da azioni in questa direzione, così come è necessario progettare e attuare politiche formative, di upskilling e reskilling mirate, calibrate sulle necessità dei singoli settori in modo da massimizzare l’efficacia. Infine, il contributo suggerisce di intervenire, dove necessario, adeguando le capacità di risposta della contrattazione collettiva alle crisi contingenti. Si tratta senza dubbio di sfide ampie e trasversali, che dimostrano come il mercato del lavoro non possa essere trattato come un monolite. Imprese, lavoratori e parti sociali non sono però prive degli strumenti per navigare un orizzonte incerto ma mutevole.
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