Il ministro Valditara: «Giovani e lavoro, ecco la nostra strategia»

Parlare di lavoro agli studenti è come comunicare con una lingua sconosciuta. La gran parte fa molta fatica a intravedere un nesso tra ciò che impara sui banchi e il futuro sbocco lavorativo. Il disallineamento è talmente marcato che il risultato appare nella sua drammatica evidenza quando lo studente arriva a conclusione del suo percorso studi e deve bussare in azienda. Numerose ricerche testimoniano il profondo divario tra conoscenze e competenze, per le imprese interpellate da Unioncamere e Confindustria la percentuale del gap è attorno al 57%. E tra le competenze più carenti ci sono quelle digitali (60%), linguistiche (45%) e trasversali (40%). Oggi la riduzione di questa distanza è diventata la «mission impossible» del sistema scuola, un investimento fondamentale per l’intero Paese che nei prossimi anni dovrà fare i conti con un drastico calo di giovani dovuto alla crisi demografica. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Valditara, ministro dell’Istruzione e del Merito.

Come ricucire questo gap?

«Il rapporto fra scuola e impresa è fondamentale. Su questo noi abbiamo avviato una riforma dell’istruzione tecnico professionale che favorisce proprio questo ponte fra scuola e mondo del lavoro. Lo abbiamo fatto perché i dati sono impressionanti, nel 2027 il 47% delle offerte di lavoro non sarà coperto per mancanza di qualifiche corrispondenti».

È un dato drammatico...

«Certo, è un dato che incide sulle possibilità occupazionali dei nostri giovani. È un dato che grava sulla competitività delle imprese ed è un dato che accomuna, fra l’altro, a diversi livelli, anche i principali Paesi occidentali che stanno sempre più investendo in questa direzione».

Cosa sta facendo il ministero per favorire la collaborazione tra aziende e scuola? Il Pcto, ex alternanza scuola-lavoro, è sufficiente?

«Noi abbiamo deciso di valorizzare l’alternanza scuola-lavoro, e abbiamo anche previsto che professionisti, dirigenti, manager e imprenditori possano insegnare nelle scuole laddove manchino delle specializzazioni. Abbiamo anche investito sull’apprendistato formativo».

Per evitare il «suk dei curricula vitae» non sarebbe più utile aiutare i ragazzi a scegliere percorsi formativi adatti al mercato del lavoro?

«Noi abbiamo deciso di investire sulla filiera formativa tecnica (il 4+2) e poi è fondamentale l’idea del campus che mette insieme formazione professionale e istruzione tecnico-professionale, eventualmente anche licei, Its e università. In questo contesto c’è la possibilità di scambiarsi esperienze, didattica e laboratori. È quindi un potenziamento forte di quella relazione virtuosa che deve sempre più avvicinare la scuola al mondo del lavoro. Fondamentale è poi l’orientameto».

Spesso la scuola si focalizza sulle conoscenze, fuori però sono anche le soft skills, le cosiddette competenze trasversali, a fare la differenza. Sono sempre più richieste dalle aziende, ma la scuola è pronta?

«Assolutamente sì. Abbiamo deciso di potenziare proprio gli elementi delle soft skills, cioè di quelle competenze immateriali come la capacità di organizzare il proprio lavoro, di lavorare in squadra, la puntualità, che secondo una ricerca dell’Università di Harvard sono al primo posto per aiutare un giovane a trovare lavoro».

Le aziende hanno fame di giovani specializzati. Avete una strategia per aumentare questa scelta orientativa?

«Per studiare percorsi formativi specifici stiamo predisponendo un’apposita direzione generale per l’istruzione tecnico professionale e anche un ufficio ad hoc che sarà costituito al ministero per mettere in contatto scuola e imprese, così che le imprese possano finanziare le scuole e queste possano offrire percorsi formativi sempre più strutturati sulle esigenze del territorio».

Lei nei giorni scorsi ha detto no al cellulare a scuola. Eppure gli imprenditori cercano giovani orientati all’innovazione e all’utilizzo delle tecnologie digitali. Come si conciliano questi due aspetti?

«Io non ho detto no all’utilizzo della tecnologia digitale, ho detto no al cellulare in classe. Ovviamente diciamo sì al tablet e al computer. Per quanto riguarda il cellulare, tutti gli studi scientifici testimoniano che ha degli effetti negativi sulla capacità di concentrazione, di apprendimento, sulle relazioni, sulla fantasia, sulla creatività e quindi sull’apprendimento. Il cellulare non deve essere uno strumento formativo. Questo lo dicono ormai tutti, anche l’Unesco, l’Ocse, la gran parte degli Stati europei che lo stanno vietando alle elementari e alle medie. Discorso diverso è la digitalizzazione della didattica, le lavagne elettroniche, per esempio, la robotica, l’intelligenza artificiale, che sono invece da me fortemente incoraggiate e non è un caso che io abbia fatto questo annuncio sul cellulare proprio mentre ricordavo che abbiamo fatto partire una sperimentazione per personalizzare l’educazione e la formazione grazie a dei kit di intelligenza artificiale».

Il rapporto Invalsi è fresco di stampa. Come siamo messi a dispersione scolastica?

«Il rapporto Invalsi viene letto da qualcuno in modo errato. In realtà testimonia una riduzione importante dei divari fra Nord e Sud, con un miglioramento complessivo soprattutto alle superiori, in particolare in quinta, delle performance dei nostri studenti. C’è stata una drastica riduzione della dispersione esplicita. Le cito alcuni dati che lo dimostrano in modo evidente: secondo lo studio e le proiezioni dell’Invalsi la dispersione esplicita quest’anno dovrebbe attestarsi al 9,4%. Il Pnrr aveva stabilito per l’Italia per il 2026 una dispersione esplicita del 10,2% e per il 2030 del 9%. Calcoli che nel 2022 era dell’11.2%. Ancora meglio va la dispersione implicita».

Per rendere attrattive le aziende agli occhi degli studenti, bisognerebbe favorire l’incontro con le eccellenze del territorio. Nei percorsi didattici non sarebbe utile inserire la visita in azienda?

«Noi stiamo incoraggiando queste visite, perché l’azienda si racconti in tutti i suoi aspetti, dalla gestione del personale fino alla produzione passando per la formazione continua. Questo rapporto, questa contaminazione, credo che sia molto positiva e che vada assolutamente incentivata».

Dal suo osservatorio, come vede i ragazzi di oggi? Li promuove o li bolla come «viziati», giudizio che spesso si ascolta sui posti di lavoro?

«I ragazzi hanno bisogno di essere incoraggiati, di ritrovare l’entusiasmo, perché hanno dei grandi talenti, delle grandi potenzialità che vanno valorizzate. Bisogna ridare loro fiducia perché quei talenti non vadano sprecati ma possano essere realizzati al meglio».

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