Giovani e lavoro, stereotipi da rompere
«Alle aziende serve una visione positiva»

Quando centinaia di giovani under 30 scelgono di trascorrere il sabato pomeriggio al Festival delle Buone notizie, come avvenuto a Bergamo, anziché davanti a uno spritz, c’è da chiedersi se non vada rivista l’opinione disfattista che spesso emerge dal mondo del lavoro nei loro confronti. Al «Gres Art 671» i protagonisti della Generazione Z hanno ascoltato voci positive, anche dal mondo del lavoro come la manager Fabiana Andreani, nota al grande pubblico con centinaia di migliaia di follower sui social (seguita dai giovani soprattutto su Instagram e Tik Tok) come «fabianamanager, la ZIA di orientamento e lavoro». Perché è vero che la Generazione Z ha sconvolto il mondo del lavoro con esigenze di trasparenza, flessibilità e crescita personale ma è anche la generazione che sta chiedendo al mondo delle imprese di modificare il posto di lavoro come luogo in cui si può essere se stessi e non solo una risorsa che fa e basta. Ne parliamo con Fabiana Andreani.

Lei ha scelto di partecipare a un evento in cui si parla di notizie positive. In un mondo del lavoro spesso descritto con pessimismo, perché è importante portare un messaggio diverso?

«Ho detto subito di sì perché partecipare al Festival delle Buone notizie significa portare un messaggio positivo: non esiste un’epoca sbagliata per vivere e lavorare. È ora di smettere di vedere i giovani come una generazione sfortunata. Il mondo cambia rapidamente e offre tante opportunità: dobbiamo imparare a coglierle, nonostante le difficoltà. Sono stanca di vedere raccontare solo una realtà distorta, disorientando ancora di più una generazione che ha già abbastanza incertezze. È necessario parlare anche delle opportunità, senza indorare la pillola, ma con un approccio costruttivo. Il mio obiettivo è dare ai giovani una visione diversa, aiutandoli a capire come sfruttare ciò che questa epoca ha da offrire».

Le aziende lamentano che i giovani «non hanno voglia di fare» o che «pretendono troppo». Allo stesso tempo, i ragazzi si sentono spesso disorientati e poco valorizzati. Qual è la causa di questo divario?

«Ogni generazione è stata accusata da quella precedente di essere meno motivata. Questo è un elemento culturale, ma oggi è più complesso. Da una parte i giovani sono molto istruiti e hanno a disposizione un ventaglio ampio di opportunità ma non sanno come incanalare le loro competenze in un percorso chiaro. La carriera oggi è un progetto dinamico che si costruisce nel tempo, spesso cambiando. Dall’altra parte, le aziende devono affrontare un cambiamento ideologico e organizzativo. Molte sono ancora legate a un modello tradizionale, con tempi lenti e percorsi rigidi, che non rispondono alla velocità e alla curiosità di questa generazione. I giovani vogliono responsabilità e un mentore che li guidi, ma alcune aziende preferiscono mantenere un controllo centralizzato, limitando la possibilità di crescita. È un mismatch evidente, e se non lo affrontiamo rischiamo di perdere talenti preziosi».

L’Italia sembra ancora legata a stereotipi sull’istruzione, come la distinzione tra licei per i «bravi» e istituti tecnici e professionali per chi «non vuole studiare». Come possiamo superare questa mentalità?

«L’orientamento è una delle maggiori sfide. Ancora oggi è affidato a figure non sempre competenti e basato su metodi superati. Etichettare gli studenti a 14 anni è un errore: non siamo più ai tempi della riforma Gentile, quando le competenze tecniche erano di serie B. Oggi le competenze tecniche sono spesso quelle vincenti, ma mancano strumenti adeguati per aiutare i ragazzi a scoprirle e valorizzarle. È fondamentale insegnare ai giovani a identificare le proprie competenze, a raccontarle e a costruire una carriera flessibile, che si adatti alle evoluzioni del mercato del lavoro. Inoltre, dobbiamo smettere di far credere che cambiare percorso sia un fallimento: è parte integrante della vita professionale moderna».

Molti giovani si lamentano che le aziende raccolgono curriculum senza poi utilizzarli realmente. Crede che il CV abbia ancora un valore?

«Il curriculum resta uno strumento utile, ma deve evolversi. Oggi è importante che i candidati imparino a raccontare le proprie competenze in modo sintetico e mirato. Il bilancio di competenze, ad esempio, potrebbe diventare un supporto fondamentale per chi cerca lavoro, aiutando le persone a essere più consapevoli del proprio potenziale. Le aziende, invece, dovrebbero utilizzare strumenti più moderni, come piattaforme digitali e test pratici, per rendere il processo di selezione più efficace. LinkedIn, ad esempio, offre una panoramica più ampia del profilo di un candidato rispetto a un CV tradizionale. Ma ciò che conta davvero è costruire un dialogo trasparente e umano durante la selezione

Le aziende spesso utilizzano un linguaggio distante dai giovani. Come dovrebbero comunicare?

«I giovani si aspettano autenticità e trasparenza. Non vogliono annunci autoreferenziali o linguaggio “giovanilistico” forzato. Vogliono sapere cosa offre un’azienda e quali sono le opportunità di crescita. I social media sono strumenti fondamentali, ma molte aziende non riescono a sfruttarli a pieno. Un esempio positivo è Lidl, che utilizza Instagram per offrire consigli utili ai candidati e raccontare il percorso di crescita in azienda. Questo approccio aggiunge valore, creando un dialogo bidirezionale. È necessario abbandonare la paura di esporsi: se non parli tu come azienda, qualcun altro parlerà di te, e potrebbe non farlo nel modo giusto».

Nel suo libro parla di «lavorare alla grande». Cosa intende con questa espressione?

«Per me lavorare alla grande significa lavorare a propria misura. Non si tratta di raggiungere il successo secondo modelli predefiniti, ma di costruire un percorso che assomigli al proprio modo di essere. Il lavoro deve arricchire la vita, non dominarla. Ogni giovane dovrebbe sentirsi libero di creare una carriera che rifletta le sue aspirazioni, senza essere schiavo di aspettative esterne».

In un contesto di inverno demografico e cambiamento continuo, che futuro ci aspetta nel lavoro?

«Il futuro del lavoro sarà intergenerazionale. Da un lato, dobbiamo continuare a coinvolgere la Generazione Z, che rappresenta una fetta sempre più piccola della popolazione. Dall’altro, sarà cruciale valorizzare i lavoratori over 45 attraverso il longevity management. Non possiamo permetterci di perdere l’esperienza di queste persone, che devono essere aggiornate e coinvolte in modo attivo. Il cambiamento demografico è una sfida enorme, ma anche un’opportunità per ripensare il mondo del lavoro in modo più inclusivo e dinamico».

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