Economia / Valchiavenna
Sabato 28 Dicembre 2013
Birra, come lo Stato
si “beve” le aziende
La delusione dei mastri birrai della provincia - «Accise e Iva colpiscono un settore in crescita già alle prese con una burocrazia complicata»
Più di un sorso su tre se ne va in tasse. E nel giro di un anno si arriverà a quasi metà birra. Sono tempi difficili per i produttori di birra di tutta Italia e anche in Valtellina si registrano le stesse difficoltà del resto del Paese. Il 3 ottobre e il 7 novembre 2013 il parlamento ha approvato due decreti legge con “misure urgenti”, rispettivamente in materia di beni culturali e di istruzione. Entrambi prevedono, come copertura economica di alcune voci di spesa, l’aumento delle accise sulle bevande alcoliche già soggette a questa imposta, mentre su tutte le altre l’accisa continua ad essere pari a zero. All’inizio di gennaio 2015 il valore dell’accisa sulla birra diventerà dunque di circa 38 euro per ettolitro rispetto ai 28,2 attuali: c’è un preoccupante +34,8%. Il valore dell’accisa sulla birra in Italia, fra poco più di dodici mesi, sarà non più il triplo, ma il quadruplo di Germania e Spagna.
A livello nazionale è scattata da tempo la protesta di Assobirra, associazione degli industriali della birra e del malto che riunisce le maggiori aziende che producono e commercializzano birra in Italia. Si tratta di società che complessivamente coprono più del 98% della produzione di birra nazionale e rappresentano oltre il 75% della birra consumata in Italia, dando lavoro direttamente e con il suo indotto a 144.000 persone. Ma non si possono trascurare le problematiche vissute quotidianamente dai microbirrifici: in provincia di Sondrio sono otto, da Livigno alla Valchiavenna.
Secondo Assobirra, negli ultimi dieci anni le accise sulla birra in Italia sono già cresciute del 70%: un incremento fra i più alti d’Europa. Se alle accise si aggiunge l’Iva (che nel frattempo è salita dal 20% al 22%) oggi, quando compriamo una bottiglia di birra, un sorso (abbondante) su tre se lo beve il Fisco.
Secondo gli imprenditori, aumentare le accise non serve. «Quando aumentano, sale infatti anche il prezzo della birra - è il punto di vista di Assobirra -. Questo produce una contrazione dei consumi. Di conseguenza le entrate per le casse dello Stato non migliorano, tutt’altro. L’aumento delle accise sulla birra non risolve i problemi del Paese, ma rischia di portare danni a tanti italiani. Ai consumatori, che finiranno con il pagare di più la loro birra. Alle aziende birrarie, che saranno costrette a tagliare gli investimenti produttivi e non potranno continuare – come stanno facendo – a creare posti di lavoro. Agli agricoltori e agli esercenti di bar e ristoranti, che con la diminuzione dei consumi di birra vedranno ridursi anche i propri redditi».
Dall’inizio di dicembre, alcune circolari hanno semplificato la situazione a livello burocratico. Ma in concreto, i salassi restano. Lo confermano le parole di Davide Viale, mastro birraio di Chiavenna (a lui è legata la storia di Sorà Lamà) e produttore di impianti innovativi per microbirrifici in sinergia con Fic Spa. Una delle principali aziende metalmeccaniche della provincia di Sondrio. «Se si ipotizza una produzione di 500 ettolitri per un microbirrificio medio, al termine della crescita delle accise si arriverà a 4.500 euro di aumento all’anno - premette -. In totale, solo di accise, saremo a circa 20mila euro ogni dodici mesi per ciascuna azienda. Stiamo parlando di una percentuale che incide sul costo di produzione e va a ricadere su tutte le fasi della commercializzazione. Poi, alla fine, si aggiunge l’Iva, che a causa delle accise determina un aumento ancora maggiore».
Ma vediamo un po’ di numeri. «Su un euro di birra ci sono 37 centesimi di tasse, con l’aumento arriveremo a 45 - spiega - . Probabilmente alla base di questo provvedimento c’è una semplice analisi di mercato: visto che i consumi crescono, anche grazie ai seicento microbirrifici, si è capito che si possono recuperare risorse in questo comparto. In un momento di crisi, caratterizzato da un calo dei consumi e da tante conseguenze negative, questo provvedimento che frena gli acquisti comporta molte problematiche. C’è una contraddizione evidente. La situazione è resa ancora più complicata dalla burocrazia: spesso anche l’interpretazione delle normative è estremamente difficoltosa».
«Queste nuove accise rappresentano un vero e proprio salasso per le imprese e un freno per nuovi investimenti – sottolinea Daniele Colli, titolare e gestore del “Birrificio valtellinese” di Berbenno -. C’è un altro problema: non sappiamo se ci saranno altri aumenti e la programmazione dell’attività aziendale è condizionata da questa incertezza. La maggior parte dei birrifici paga le accise durante la produzione, nel momento del trasferimento dalla produzione alla fermentazione: in pratica si anticipa una parte del ricavo al governo. Con queste premesse fare impresa e creare opportunità di sviluppo, soprattutto per i giovani imprenditori, è sempre più complicato».
Anche i titolari del Birrificio Legnone di Dubino sono perplessi e stufi di dovere mettere mano al portafoglio. «Si paga più di accise che di materia prima – sottolinea il mastro birraio David Cesari, parmense che ha scelto la Valtellina per produrre birra di qualità -. Ormai gli ingredienti della birra sono malto, luppolo e accisa. Noi siamo partiti in primavera. Abbiamo costruito un business plan basato sulle variabili note qualche mese fa. Ora ci hanno cambiato, da un mese all’altro, le carte in tavola. Non si tratta di una mossa seria: si rischia di compromettere la sostenibilità dell’investimento. Stiamo parlando di cifre esigue, ma alla fine anche il nostro guadagno è limitato tra tasse, mutui e interessi».
Le accise si mangiano la piccola parte di guadagno che rimane. «La birra è l’obiettivo principale di questa politica che va a caccia di soldi. Non si riscontrano atteggiamenti simili, infatti, né per le bevande zuccherate, né per il vino. Con questa pressione fiscale, la nostra birra non può sfidare sul mercato i prodotti tedeschi. Questo comporta una perdita di occupazione di cui, in questo periodo, il nostro Paese non ha proprio bisogno».
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