Cronaca / Morbegno e bassa valle
Lunedì 02 Settembre 2013
Picchiato in città
«Fatto gravissimo»
Il Gabbiano, per voce del sociologo Bonomi, si scusa con la vittima e spiega la sua attività - «Si rischia di compromettere il nostro lavoro»
Il grave episodio di violenza che ha sconvolto questo tranquillo scampolo di estate morbegnese è una ferita aperta nei rapporti tra la Casa Rosa, la comunità per minori che ospitava i quattro giovani responsabili della feroce aggressione di domenica sera, e la città del Bitto.
Non lo nasconde, anzi lo sottolinea con decisione il vicepresidente del Gabbiano, il sociologo valtellinese Aldo Bonomi, che conosce da anni questa realtà alla quale si è avvicinato a Tirano grazie all’amicizia con padre Camillo de Piaz che favorì l’apertura, nel convento dei Servi di Maria, di una delle prime comunità terapeutiche per i malati di Aids e per chi abusava di alcool e droga.
«Quello che è successo domenica è un fatto gravissimo che rischia di compromettere il lavoro che da anni si sta facendo qui a Morbegno, alla Casa Rosa. Un lavoro che definirei walfare della marginalità perché qui ci occupiamo di giovani italiani e stranieri, della cosiddetta seconda generazione, con storie drammatiche alle spalle che hanno fatto della sottocultura della violenza e del branco, il loro modo di vivere e di agire. Sta a noi e alla società in generale riuscire a ridare a questi ragazzi una nuova opportunità, ma questa volta, dobbiamo ammetterlo, abbiamo fallito».
Il Gabbiamo vuole esprimere la massima solidarietà a Mariano D’Eraclea, alla figlia 22nne che, quella sera, ha assistito alla brutale aggressione e con i quali, attraverso conoscenze comuni, si sono scusati: «Accanto a loro che sono le due vittime dirette, metterei tutta la città, la terza vittima innocente che adesso, giustamente si interroga e vuole cercare di capire».
Compito istituzionale delle comunità riabilitative, come quella di Morbegno, è accompagnare le persone a rischio sociale, devianti nei percorsi alternativi alla misura detentiva decisi dai Tribunali e in questa situazione si trovavano i quattro ragazzi , sottoposti ad un provvedimento di messa alla prova, che, fuggendo dalla comunità e aggredendo l’ex poliziotto hanno finito con il disattendere. «Lo Stato nella sua filosofia di recupero dei soggetti, meglio se giovani, sospende la pena detentiva, applicando misure alternative al carcere, ma anche per tranquillizzare la popolazione, possiamo dire che i ragazzi sono stati subito allontanati dalla Valtellina e affidati a una struttura detentiva fuori provincia». La lettura che fa il sociologo Bonomi, ripercorrendo la storia del Gabbiano, è la storia di una comunità che ha saputo interpretare e raccogliere i bisogni della marginalità, che nel tempo si manifestavano: la tossicodipendenza, l’Aids, il disagio psichico. «E ora si trova ora a occuparsi di una nuova emergenza rappresentata da quei due milioni di giovani che non studiano e non lavorano, particolarmente esposti al rischio di emarginazione sociale e quindi alla devianza e gli stranieri di seconda generazione che faticano ad integrarsi. Così arriviamo allo sballo all’ennesima potenza, che non è solo quello della discoteca il sabato sera, di cui giustamente si preoccupano le famiglie, ma è anche la sottocultura della banda che ha terreno fertile nelle aree metropolitane e che vede contrapporsi spesso gruppi etnici diversi per il controllo del territorio e uno dei ragazzi ospiti del Gabbiano, sudamericano, protagonista di questa episodio, rientra in questa casistica».
Fenomeni socialmente in aumento, che investono le comunità per minori e le obbligano a rivedere le modalità di sorveglianza e di controllo dei sintomi che potrebbero portare a situazioni di rischio: «senza che si arrivi al regime carcerario, che è un’altra cosa» e gli stessi programmi terapeutici di recupero.
A questo oggi stanno lavorando gli educatori e gli ospiti della Casa Rosa, affinché non vada disperso, per un fatto grave seppur isolato, il percorso intrapreso dal Gabbiano che qui a Morbegno, in 5 anni ha già ospitato 180 minorenni, di cui nove vivono ancora qui, in mezzo ai valtellinesi, nelle stesse scuole, nei luoghi di lavoro, per tentare un non facile riscatto da un passato di violenza, emarginazione e povertà culturale, prima che materiale.
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