Cronaca
Mercoledì 14 Dicembre 2022
L’omicida di don Malgesini “salvato” dalle sue ammissioni
MotivazioniDepositata la sentenza che ha tolto l’ergastolo a Mahmoudi Per i giudici “meritò” le attenuanti quando rivendicò il gesto dai carabinieri
La confessione-rivendicazione che Ridha Mahmoudi fece nell’immediatezza dell’omicidio di don Roberto Malgesini, avvenuto a Como il 15 settembre del 2020, «può legittimamente fondare il riconoscimento delle circostanze attenuanti», in quanto quella ammissione non fu una «confessione dell’evidenza» ma al contrario «un fondamentale indicatore per la ricostruzione del fatto».
Il passaggio
Con questa spiegazione, i giudici della Sezione Prima della Corte d’Assise d’Appello di Milano hanno in sostanza motivato quel passaggio cardine – ovvero il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche equivalenti all’aggravante della premeditazione e alla recidiva – che aveva portato il cinquantacinquenne tunisino a scendere, in secondo grado, dalla pena dell’ergastolo inferta a Como quella di 25 anni.
Nel giorno della lettura del dispositivo non erano mancate le polemiche, anche perché era rimasta in piedi – come detto – l’aggravante dell’omicidio premeditato ed era pure stata riconosciuta la piena capacità di intendere e di volere al termine di una perizia che era stata disposta dai giudici meneghini. Risultava dunque difficile capire il perché di questa “concessione”.
Le motivazioni, depositate in queste ore, hanno così reso palese il motivo della scelta. A “salvare” Mahmoudi dall’ergastolo, insomma, sarebbe stato il suo comportamento immediatamente successivo all’omicidio di don Roberto Malgesini, quando cioè coperto di sangue percorse la strada che da San Rocco porta alla caserma dei carabinieri di Como per «rivendicare il gesto», «confessando – scrivono i giudici – in fatto l’aggravante della premeditazione».
«Senza questa ammissione – si legge – o addirittura parlando di una eventuale “rabbia cieca” alla vista del sacerdote, nessuna aggravante sarebbe mai stata sostenibile», anzi l’omicidio – per come si era configurato – avrebbe «evocato il dolo l’impeto» se lo stesso Mahmoudi non «avesse sostanzialmente ammesso la premeditazione».
Comportamento
I giudici milanesi riconoscono anche che poi il tunisino ebbe un «comportamento processuale immeritevole» - aggiungiamo noi pure negando quanto aveva prima ammesso - arrivando a dire di non conoscere don Roberto, ma questo secondo la Corte d’Assise d’Appello «soccombe di fronte all’ammissione del fatto» fatta in precedenza. Ovvero il giorno stesso dell’omicidio.
Per il resto le motivazioni hanno ricalcato quelle del primo grado, sostenendo come «non sia in discussione la sua colpevolezza» e anche «l’aggravante della premeditazione». Un movente che anche i giudici milanesi individuano nella «missione di Ridha Mahmoudi di rimanere in Italia a qualsiasi costo, nonostante il disprezzo per gli italiani».
Una forza motrice che lo portava a rivolgere i suoi strali contro chi non soddisfaceva le sue aspettative.
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