Difficilmente esiste un tema più interessante e provocatorio di quello della “felicità”, alla quale pare aspirino tutti gli esseri umani, in qualsiasi periodo della loro storia, all’interno di ogni cultura e religione, a qualsiasi ceto sociale appartengano. La questione, di per sé amplissima, viene però qui collocata nel percorso evolutivo tipico dell’età moderna, quando, dopo secoli di storia del cristianesimo, si riaffacciano all’orizzonte dei credenti quei modi di vedere la vita e d’interpretarla che furono tipici dell’età pagana.
Così il mondo occidentale cristiano, a contatto con i testi delle filosofia, della storia, dell’arte e della potentissima letteratura pagana greca e romana, in tutte le sue raffinate sfaccettature, ipotizza la possibilità di trovare risposte alla questione della felicità, anche indipendentemente dalla rivelazione biblica e dai presupposti dottrinali che essa porta inscindibilmente con sé. A contatto con i testi della sapienza antica, per lo più riscoperti nello splendore delle lingue originali, può venire anche momentaneamente spontaneo prescindere dalla fede cristiana, in particolare dai dogmi che in assoluto segnano il presente e il futuro di ogni essere umano: il peccato originale e la necessità di una redenzione.
Con o “senza” peccato
Questa ipotesi è già carica di un’ambiguità che merita di essere segnalata. Infatti, ignorare la questione del peccato e della necessità di esserne liberati - sia perché non si sia venuti a contatto con la rivelazione biblica e la predicazione della chiesa, sia perché si intenda esplicitamente e consapevolmente prescindere da queste ipotesi peraltro conosciute - non significa vivere di fatto in un mondo storico che non sia segnato dalla condizione esistenziale effettivamente determinata dai contenuti di quelle verità. Semplicemente: non avere coscienza del peccato non significa esserne privo, non avvertire l’esigenza di una redenzione non significa non averne bisogno.
Proprio sullo sfondo e sul presupposto di questa latente ambiguità si determina, a partire dal XV secolo un modo particolare di porre la questione della felicità e di cercarne la risposta. Di fatto gli autori del XV secolo, cioè dell’età umanistica e rinascimentale, non intendono opporsi esplicitamente al cristianesimo e al suo modo di interpretare l’essere al mondo da parte degli esseri umani. Per lo più essi sono cristiani e non intendono smettere di essere tali, tuttavia, a contatto con la cultura classica, avvertono la possibilità di trattare il tema della felicità, connotandolo di contenuti semplicemente intra-mondani, sviluppando un discorso di virtù etiche, puramente naturali, che potrebbe garantire una certa felicità morale a sé e agli altri; ritengono altresì di poter programmare una vita sociale e politica che si ispiri a criteri di giustizia umanamente validi per tutti, anche a prescindere dai contenuti specifici della rivelazione cristiana; in tale logica prospettano anche una felicità contemplativa, che termina alla fruizione di Dio, ma che prescinde completamente dalla questione di Dio Trinità e dunque, ancora una volta, dalla specificità della rivelazione cristiana.
Il XVI e il XVII secolo ci appaiono chiaramente come secoli in cui la stessa teologia cattolica, mediante il concetto di “natura pura”, legittima un atteggiamento culturale che, da un lato, approva a pieno titolo la nascita di un sapere totalmente separato dalla rivelazione biblica, presuntuosamente fondato su se stesso, dall’altro rende l’ordine propriamente soprannaturale del tutto superfluo rispetto a quello naturale. In tale contesto si formula l’idea di una felicità terrena adeguatamente proporzionata alla natura dell’uomo naturale, mentre la beatitudine soprannaturale resta un’opzione alla quale è attenta solo quella porzione d’umanità che crede esplicitamente nel Dio di Gesù Cristo. Effettivamente questo discorso regola, all’interno della filosofia e della teologia di scuola, i cui confini dopo Trento sono difficili da delimitare, una progressiva divaricazione tra ordine naturale e ordine soprannaturale. Ma è altrettanto vero che la riflessione filosofica dell’età moderna si è volutamente sganciata dai quadri dell’ufficiale insegnamento universitario, per prodursi in forme di pensiero fortemente segnate dalla singolare personalità di alcuni grandi autori.
[...] La questione della felicità per Spinoza si pone oltre la dimensione storica della rivelazione ebraica, per approdare a una letizia spirituale che consiste nella contemplazione dell’intero ovvero dell’unica sostanza, intuita “sub specie aeternitatis” nella miriade delle sue necessarie sfaccettature o determinazioni. Invece, nel caso di Leibniz, la salvaguardia della creazione porta con sé la possibilità di un’affermazione netta dell’irriducibile individualità di ogni singolo essere ragionevole, che trova la propria felicità in un plesso di condizioni che ne garantiscono il radicamento in Dio, libero e trascendente artefice dell’universo. A ben vedere, né l’uno né l’altro intendono elaborare la propria visione del mondo mettendo in discussione la rispettiva profonda fede religiosa di appartenenza, ma ciascuno di loro ne offre un’interpretazione singolare: quella del Dio unico, dell’unica sostanza eterna, che vive e necessariamente si manifesta in tutte le cose, e quella di un’universale armonia prestabilita che trascrive, a modo suo, il tema cristiano portante della predestinazione di Cristo e della ricapitolazione in lui di tutte le cose, dove però alla concretezza storica della persona di Cristo, si sostituisce l’universalità di un’idea o di un punto di vista assoluto.
Differenze tra i paesi europei
Nei secoli XVII e XVIII diviene sempre più chiara la tendenza a ridurre la beatitudine soprannaturale nei semplici termini di una felicità terrena, sulla scorta di una ragione ben radicata nella sensibilità e attenta alla costruzione di una civiltà terrena, sempre più ispirata a principi filantropici universali, come accadde soprattutto nel mondo anglosassone. Sul versante francese quegli stessi principi razionali si attivarono in una critica rigorosa a ogni sopruso sociale e si volsero contro ogni privilegio alimentato dalla superstizione religiosa, con particolare attenzione alle applicazioni tecniche di un sapere, che, svestitosi dei propri pesanti paludamenti accademici, si accinse a indossare un abito di servizio adatto alla soluzione di problemi comunitari concreti che avrebbero reso effettivamente possibile la felicità pubblica.
Nella stessa linea, ma con maggior moderazione, le attenzioni dell’illuminismo italiano muovono da una preoccupazione sincera per una serie di riforme sociali che richiedono la formazione della coscienza civile dei popoli, in vista di un’equità che risulti fondata sull’etica personale del dominio delle passioni individuali, a sicuro vantaggio dell’utilità comune. Nel mondo germanico si sviluppa un discorso complesso, ancora saldamente ancorato a solidi presupposti religiosi, che mettono in gioco la destinazione o la vocazione dell’uomo ad essere pienamente se stesso, come individuo e come membro di una società, nella quale soltanto si compie la perfezione umana che può rendere l’uomo veramente felice.
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