Cronaca
Martedì 20 Giugno 2023
«Cultura del fare»
ma anche specchio
delle debolezze umane degli italiani
Il profilo Il berlusconismo non è stata una storia lineare, ma un insieme di successi e di cadute, di grandi risultati
ottenuti e di promesse mancate. Il futuro sarà un enigma, così come in parte è stata anche la sua formula politica
politica le virtù degli italiani: la cultura del fare. E insieme ha interpretato le debolezze umane degli italiani, prescritte dal senso comune, e dal clima psicologico, da quel «liberi tutti» degli anni ’90 formatosi con la caduta rovinosa della Prima Repubblica. Arcitaliano, fino a identificarsi pienamente con l’italiano medio: dalla casalinga di Voghera al padroncino del Nordest, dalle partite Iva agli imprenditori. Ha saputo cogliere il momento, colmando il vuoto lasciato dalla fine della Repubblica dei partiti, dando una casa agli orfani del pentapartito e a quel pezzo di elettorato che votava Dc turandosi il naso.
Nel 1994 spariglia il gioco
La sua discesa in campo il 26 gennaio 1994 resta agli annali, e il modo in cui lo fa definisce il carattere di una personalità votata a persuadere, sedurre, compiacere: «L’Italia è il Paese che amo», dice dagli schermi dei principali canali tv, pubblici e privati. S’inventa uno spazio politico, quello di centrodestra in realtà mai esistito nella storia repubblicana in termini organici, costruisce dalla mattina alla sera un partito-azienda, Forza Italia, sdoganando il Msi e togliendo dai margini la Lega di Bossi. Per la «macchina da guerra» di Occhetto è subito sconfitta. Gli anni del consenso del forzaleghismo fra i capannoni nordisti, un po’ istituzionale e un po’ ruspante, con il Cav in tandem con il Bossi in canotta operaista, confortano chi ritiene possibile l’incontro fra un liberalismo riveduto e corretto e il ribellismo antiromano del contado lombardo-veneto. Era un outsider, ma anche i suoi detrattori cominciano a temere che il Cav non sia destinato a scrivere una semplice parentesi. Del resto era già un imprenditore di successo e il capo di un impero (tv, editoria, area immobiliare, calcio), con frequentazioni nella Dc e nel Psi di Craxi, diventando con il tempo il titolare (secondo «Forbes») di un patrimonio di 7,1 miliardi di dollari e il 352° uomo più ricco del mondo. Affermato e percepito come vincente presso la gente comune, ma escluso dal «salotto buono» dell’alta finanza che lo riteneva un parvenu arricchito, facendogli inconsapevolmente un favore. Nasce anche da questa «diminutio» il mito dell’«uomo del popolo», «uno come noi», in simbiosi con la maggioranza silenziosa. Certo è l’uomo del cambiamento, missione per lui naturale, che rompe con le liturgie ingessate dell’epoca. Linguaggio televisivo, stile diretto e disinvolto, a tratti anti istituzionale, non a suo agio nel «politicamente corretto».
Fra successi e cadute
Con la fine delle ideologie inizia un tempo di immaginazioni e Berlusconi raccoglie il lascito umorale, l’eredità di Mani pulite che le reti Fininvest avevano cavalcato: la rivincita, o presunta tale, della società civile su quella politica. Lo spirito dei tempi del ’94 era segnato dalla caduta del Muro e da una visione ottimistica della globalizzazione. Berlusconi intercetta questo desiderio di novità con un messaggio plausibile non solo a destra: la convinzione che la società civile si sarebbe dimostrata capace di sostenere il processo di rinnovamento: «Questo clima di fiducia – ha scritto il politologo liberale Giovanni Orsina – lasciava credere che il ceto imprenditoriale fosse davvero in grado di prendere in mano i destini della Penisola e teneva insieme la faccia populista del berlusconismo con quella liberale: sospinto dai mutamenti economici, sociali e culturali degli anni ’80 il Paese “così com’era” sembrava già più che pronto alla libertà, pronto a scrollarsi di dosso e a organizzarsi da sé, senza che ci fosse alcun bisogno di educarlo o forzarlo». Le cose, però, sono andate diversamente. Berlusconi sovente è stato descritto come precursore del populismo, il prestigiatore che ha utilizzato l’antipolitica come politica. Il berlusconismo è inscindibile dalla tv commerciale che fin dagli anni ’80 ha espresso la vitalità libertaria della società italiana nel segno di un crescente individualismo dopo l’epoca plumbea del terrorismo e della prevalenza del «collettivo». Per quanto abbia avuto una dimensione impolitica, forse è più esatto ritenere che l’impronta del Cav abbia risposto alla crisi delle ideologie storiche, affidandosi a una politica a bassa intensità, considerandola semplicemente una gestione in cui gli individui si muovono liberamente, senza lacci e lacciuoli. Per poi verificare di persona i limiti di adattare al governo della cosa pubblica gli standard manageriali. E insieme la complessità, la fatica della democrazia, il valore della mediazione sia nel guidare un Paese dalle passioni forti e una compagine, il centrodestra, agli esordi. Il berlusconismo non è stata una storia lineare, ma un insieme di successi e cadute, di risultati ottenuti e di promesse mancate. Più benessere e meno tasse, nella cornice di un liberalismo di massa, s’è rivelata una formula vincente per un artista della comunicazione, ma assai meno nell’esercizio del governo. Fuori discussione, intendiamoci, la tempra combattente del vecchio leone, la sua capacità di rialzarsi, unita all’abilità negoziale di tenere insieme gli opposti (Bossi e Fini), di gestire un condominio non pacificato e la capacità di manovrare la macchina di governo e le relazioni personali: il suo secondo governo, dal 2001 al 2005, è stato quello più lungo della storia repubblicana (1.412 giorni) e il Cav è anche il premier rimasto in carica più a lungo (3.339 giorni spalmati su 4 esecutivi).
Un sistema polarizzato
I vent’anni dell’egemonia berlusconiana hanno introdotto l’alternanza destra-sinistra, il bipolarismo personalizzato, una polarizzazione estrema in cui anche il centrosinistra ha le sue responsabilità. Un eccesso di conflittualità e un’assenza di equilibrio, per cui Berlusconi è diventato il Caimano e il «Cavaliere nero» e i 20 anni tramutati in ventennio, in un’anomalia italiana da scrutare con le lenti dell’antropologia. L’antiberlusconismo ha evidenziato almeno due limiti. Primo: nel tuonare contro il monopolista dell’informazione, s’era illuso che il popolo minuto delle tv Mediaset fosse la minoranza a bordo campo di una società a prevalente onestà e correttezza morale sotto l’ombrello pedagogico della sinistra. Non era così. Secondo: ha rinunciato a spiegarsi sino in fondo perché il berlusconismo è stato accolto dalla maggioranza degli elettori, perché ha avuto un relativo lungo successo e perché, in definitiva, non ha funzionato, restando al di sotto delle attese. Un centrosinistra che, ritenendosi superiore moralmente e culturalmente, ha confinato il berlusconismo nell’esclusivo recinto del familismo amorale, della carenza di civismo e della fede nell’«uomo forte», salvo poi ritrovarsi sconfitto dalla destra dura e pura.
La questione giudiziaria
Anche l’infinita querelle giudiziaria, che ha rivisitato a lungo una biografia complessa, compresi scandali sessuali e dintorni che hanno sporcato il prestigio della carica istituzionale, è stata dirompente: una quarantina di processi penali, 3 mila udienze, una sola condanna definitiva per frode fiscale con decadenza da senatore, tutti gli altri processi terminati con archiviazione, proscioglimento, prescrizione, assoluzione con formula dubitativa. Una volta spersonalizzato, si può dire che il conflitto politica-magistratura abbia caratterizzato la Seconda Repubblica, e che il contezioso continui. Sul piano personale è stato vissuto come un accanimento, al quale Berlusconi ha reagito con le discusse «leggi ad personam», mentre il centrosinistra ha utilizzato la leva giudiziaria quale arma politica. L’era di Berlusconi s’è conclusa di fatto nel 2011 quando l’Italia era sull’orlo del default. Il triste crepuscolo del Cav s’è accompagnato a un liberalismo moderato ed europeista (l’allineamento alla famiglia degli europopolari), con l’eccezione delle esternazioni pro Putin, la cui amicizia ora tossica risale a tempi non sospetti. L’uomo, coerente con se stesso, ha lottato fino all’ultimo, meritandosi un rispetto, questa volta, unanime. Il berlusconismo senza Berlusconi rimane avvolto nella nebbia per un condottiero irripetibile che però ha usato il partito come strumento del leader, quale estensione della sua stessa figura, il quale preesiste rispetto a Fi. Il futuro sarà un enigma, così come in parte è stata la formula politica di Berlusconi, che andrebbe studiata per restituirla ad un giudizio più meditato e, per così dire, laico: un laboratorio visto dall’estero, una storia tutta italiana vista da noi. In cerca, chissà, di un nuovo autore.
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